Una vera e propria immersione tra i linguaggi e i risvolti più oscuri di una radicata mentalità mafiosa: una serata di intensa riflessione, quella scaturita nella serata svoltasi nel salone “Associazione Costarelli” di piazza Duomo, nel cuore di Acireale, ove ha avuto luogo la presentazione del libro “A colloquio con Gaspare Spatuzza. Un racconto di vita, una storia di stragi” di Alessandra Dino.
Grazie all’Associazione Costarelli, promotrice dell’iniziativa, l’autrice del libro, Alessandra Dino, e il vescovo di Acireale, monsignor Antonino Raspanti, moderati dal giornalista Salvo Fallica, hanno dibattuto in merito ad un’accurata trattazione sulla figura dell’ex sicario della famiglia Graviano di Cosa Nostra, coinvolto in alcuni dei delitti più efferati compiuti negli anni ’90 da Cosa Nostra, tra i quali l’omicidio di don Pino Puglisi, la strage di via D’Amelio e il rapimento del piccolo Giuseppe Di Matteo.
“Un contributo per suscitare e rafforzare in ogni cittadino il senso civico della giustizia e della verità”: questa l’espressione contenuta nella nota dell’Ufficio per le comunicazioni sociali della diocesi di Acireale, diffusa per dare notizia dell’iniziativa, che ha offerto in anteprima per il territorio acese le linee generali di un lavoro delicato e meticoloso, per rendere conto del quale la scrittrice, docente di Sociologia giuridica e della devianza all’Università degli Studi di Palermo, ha adopera un linguaggio evidentemente segnato dai risvolti emotivi occorsi nei colloqui a tu per tu con il boss.
Ricchi e variegati gli spunti offerti: in primis, quelli relativi agli atteggiamenti iniziali. Spatuzza accetta di colloquiare con desiderio di riabilitazione, emerge dalla testimonianza dell’autrice, che si sottrae a questo tentativo. Il boss tenta probabilmente di usarla, vedendosi invece incalzato con domande: emblematici, in proposito, il suo rifiuto di usare il registratore, mezzo utilissimo in sede di intervista sia per raccontare la veridicità dei fatti che per tutelare il giornalista, nonché la negazione di metà delle rivelazioni rilasciate in prima battuta all’interlocutrice.
“Si percepisce il coinvolgimento dell’autrice, investita da una storia dalla quale ha dovuto difendersi tenendo a bada se stessa. E’ un testo complesso – ha affermato Mons. Raspanti – che si pone al giudizio di terzi e dell’opinione pubblica, che possono manipolarlo. Io personalmente lo ritengo scientifico perché la Dino si è attenuta al principio di controllo dei dati ed alla narrazione esplicita con punti di riferimento precisi che sottopone a criteri di verifica. Per quanto riguarda l’attendibilità o meno, della conversione del personaggio – ha proseguito il vescovo – in alcuni tratti mi ha colpito favorevolmente, in altri mi ha lasciato perplesso e dubbioso. Le censure da lui imposte ad esempio lasciano perplessi: non posso essere certo che si tratti di una conversione verace, ma appare comunque palese che Spatuzza abbia imparato la lezione”.
Per i mafiosi d’altra parte, come confermato dalle parole dell’autrice, il linguaggio è costitutivo del fenomeno di Cosa Nostra, per cui l’ambiguità diventa strumento spontaneo fatto di codici decisi anche al momento, tra tecnicismi e menzogna. “Se volessimo leggere in chiave teologica il percorso di Spatuzza – afferma il vescovo – potremmo notare in lui il tentativo di crearsi una nuova identità con l’uso del linguaggio, servendosi dell’autrice affinché questa si faccia portavoce del suo reale pentimento. Spatuzza definisce la fede svolta di vita, ammette di avere fallito e che proprio la fede gli abbia permesso il passaggio dalle tenebre alla luce, dal non vedere al vedere: vede l’inganno quando esce dalla mafia, capisce quanto la menzogna avesse sembianze di verità e quanto questa cercasse di imporsi come tale”.
Molti i riferimenti ai Graviano, sui quali Spatuzza preferisce non rivelare alcuni aspetti e per i quali ha nutrito per anni filiale devozione. Neppure Don Massimiliano, il confessore scelto da Spatuzza, riesce a spiegarsi perché egli preferisca il boss Graviano al padre: un aspetto interessante sotto il profilo della psicanalisi, servendosi della quale si potrebbe ipotizzare banalmente che egli maturi una viscerale gratitudine grazie alla sorta di super identità di “uomo di rispetto” conferitagli dall’affiliazione. E’ probabilmente da leggere in questi termini, secondo i resoconti dell’autrice, l’ansia di Spatuzza di non deludere mai Michele Graviano, da lui identificato come una sorta di “padre amorevole”, proprio come lo stesso Bernardo Provenzano, che usava passi della Bibbia per esprimersi e impartire ordini, e così come lo stesso Michele Graviano, imitato nel linguaggio.
“Salivo spesso sul Monte Grifone che sovrasta Brancaccio, territorio del quale ero capo mandamento e riflettevo quanto su quel territorio, su quelle case e su quegli uomini, avessi potere di vita e di morte, ma poi scoprii che i Graviano, alla stregua degli industriali, tenevano due casse” ricorda Spatuzza con indignazione, sentendo poi la frattura emotiva che lo spingerà a prendere atto delle menzogne insanguinate firmate dai Graviano, tra le più note delle quali si ricordano il sequestro del piccolo Di Matteo e gli ordini impartiti per colpire gli innocenti nelle stragi. Desacralizzato “il padre” Michele Graviano, Spatuzza afferma di cercare un nuovo padre in Dio confidandosi coi cappellani e studiando libri di teologia e riti religiosi, fino a vedere “una mamma” nel don Massimiliano citato nel testo.
“Ho vissuto con sofferenza e gioia la conclusione del libro, anche per il fastidio di confrontarmi con un mondo che mi dà ribrezzo, anche se ambientato in quella città dove, nonostante i fatti narrati da Spatuzza, io vivo – afferma l’autrice: – la mia è una operazione chirurgicamente spietata, fatta dalla qualità di guardare al mondo ed alla verità contestuale. L’incontro con Spatuzza è stato destabilizzante, uno di quelli che sconvolge la normalità, la vicinanza, gli sentivo fare ragionamenti sui politici che io condividevo, sino al punto di sentire il sovrapponimento di idee ma nel contempo percepivo di essere in contatto con la menzogna, con il falso, con la doppiezza e che Spatuzza non poteva raccontare a me le cose che non ha mai dichiarato ai magistrati. Ad esempio – continua l’autrice – quando parla di Dell’Utri, proprio mentre Berlusconi è capo del governo, non poteva certo dirmi determinate cose: credo che la cosa più importante per lui, fosse salvarsi la vita”.
Nonostante un’evidente paura della morte che ha portato Spatuzza a collaborare, con le sue contraddizioni e le sue ambiguità, e le tracce di un pentimento spesso credibile, come accennato da mons. Raspanti, la collaborazione del boss appare in fin dei conti dal libro soprattutto una sorta di liturgia del dolore, volta a guardare ed osservare le sofferenze subite e provocate.
Mario Agostino