Pubblichiamo integralmente la nota con la quale il preside Alfonso Sciacca, con non poca originalità, accompagna l’annuncio della presentazione del suo libro, “Memoriter et iucunde – Quel che resta dell’amicizia”, che si terrà sabato prossimo, 12 ottobre alle 18,30, all’hotel “Orizzonte” di Acireale; alla quale parteciperano don Alfio Cristaudo, Carmelinda Villeri e Francesco Toscano.
Sì, ho compiuto ottanta anni; e il fatto, pur avendo in sé una valenza privata, è stato portato sotto i riflettori dell’intera città, quasi che questa circostanza della mia vita potesse incardinarsi e confondersi tra il flusso degli eventi sociali. Non so se rallegrarmene o risentirmi. Comunque è andata così. È stata l’occasione, e questo sì che mi fa piacere, perché al Gulli e Pennisi, che è la mia scuola ed anche la nostra scuola, si riunisse un gran numero di donne ed uomini, di tutte le età, per celebrare non tanto il mio compleanno, quanto l’importanza storica di questo liceo, alla cui scuola, alla scuola cioè di grandi maestri, alla scuola della cultura classica, si sono formate generazioni e generazioni di giovani, oggi adulti e maturi cittadini. E che da questo incontro, affollatissimo e sentito per la semplicità e la spontaneità di affetti squisitamente genuini, sia nata, con minore o maggiore evidenza, la consapevolezza che questo patrimonio di cultura, questa condivisione di idee, questa tensione amicale, questo bisogno di mettere l’uomo al centro di ogni dibattito o di riflessione, non debba e non possa essere perduto se abbiamo ancora a cuore le sorti della nostra città. La consapevolezza cioè che cultura e politica non debbano essere disgiunte: anzi che debbano convergere verso il terreno del bene comune; e che l’amicizia in bonis debba (finalmente!) essere un punto stabile di riferimento di una sana e produttiva pratica politica.
Compiuti gli ottanta anni, un traguardo necessario per andare avanti ( e del quale non ho merito alcuno), vedo dinanzi a me distese sconfinate di verde, orizzonti non più lontani, una musica dolce e soave che incanta e consola. Il bosco della vita, sempre fitto e folto, nasconde ciò che esso al suo interno possiede di umile e di basso. Occorre talvolta distogliere lo sguardo da quelle cime svettanti degli alberi che sembrano guardare il cielo, non di altro desiderose che di azzurro intenso e luminoso. Ed intanto il passato reclama. Il passato si fa strada, e con prepotenza, all’interno del mio animo, e pretende di recitare le parti del protagonista, quelle che gli spettano per dovere di copione, quando il testo della nostra vita ha ormai poche pagine da leggere prima di arrivare al punto finale.
Un’età assai delicata, librata tra passato e futuro, un passato lontano che urge prendendo l’abbrivo dagli anni della fanciullezza, e un futuro immediato che sventola ali di argento. Bisogna tenere insieme queste due parti, lasciandole tenzonare quanto vogliono, a condizione però che mi consentano, tra passato e futuro, di continuare a vivere il mio presente, per quello che esso è.
Quod adest, dicevano i Romani. E consigliavano di “comporlo”, questo presente, di metterlo in ordine, e di conservare ciò che di bene l’ora fugace ci porta. Se pensiamo solo al futuro gli dei, quelli dei Romani e di Orazio poeta, ridono di noi (deus ridet), perché il futuro è coperto ed oscurato prudentemente da una nube caliginosa (Hor. Carm. III, 29).
Così mettendo insieme tanti attimi fuggenti (carpe diem) ho toccato questo traguardo. Non ho mai pensato ad un dio che ride di noi, Ma forse è così. Si diverte osservando le nostre sterili miserie.
Ho fatto nella mia vita tante cose. Mi sono dedicato a mille occupazioni. Mi è piaciuto vivere nel mondo dei miei studi, chiudendo sovente la porta a tutto il resto, e al tempo stesso mi sono dedicato alla politica (tà koiná, dicevano i Greci) ed a ciò che è comune a tutti e che ha bisogno di essere curato da ciascuno di noi. L’importante è saper conciliare gli opposti, con la coerenza dell’impegno. L’importante è possedere le cose e non permettere che esse, le cose del mondo, siano loro a governarci. E così nella politica ho attinto alla cultura, all’essere, all’assoluto. E nella mia professione di uomo di scuola non ho mai dimenticato la polis, il mondo delle cose. La loro materialità. Senza mai disperdere la concretezza del sapere. E, da preside, ho cercato di mettere la scuola, il mio liceo, al centro del mondo, iniziando con il metterlo al centro della città. Ho amato la mia città, ma senza quei provincialismi insulsi che te la fanno credere la più bella del mondo, senza cioè esserne invaghito. Ho stimato i miei concittadini, ma li ho rimproverati quando era (ed è) necessario farlo. Ho cercato di essere coerente con me stesso, per trovare all’interno del mio animo quell’unità indispensabile, a fronte della molteplicità del mondo. Quella unità che ti fa capire la molteplicità.
Ho cercato, infine, di mettere insieme il bello ed il buono, convinto che l’uno non possa esistere senza l’altro. E così ho guardato con sospetto tutto ciò che fosse solo bello; e con pari sospetto tutto ciò che proclamasse di possedere l’assoluta bontà.
Sono stato infine un temerario. E non perché essa, la temerarietà, fosse una dote naturale. Ma perché ho realizzato una cultura temeraria. Rifuggo, ancora oggi, dalla cultura quieta, chiusa in se stessa. «Donnabbondesca» (anche se don Abbondio mi è simpatico). La vera cultura è quella che osa, e che non si accontenta mai. Quella che mette in crisi se stessa ed è disposta a provare, e sperimentare. Così sono arrivato alla mia età. E, statene certi, continuerò ad essere temerario.
«Sapere aude»: abbi il coraggio di sapere. Ma dopo che hai assaporato il sapere, che cosa dovresti fare, se non continuare ad audere? Ad osare, voglio dire.
Non mi resta che ringraziare quelli che mi sono stati vicini, testimoni veraci di un affetto che permane nel tempo e si consolida.
Alfonso Sciacca