“Nient’altro che il futuro“ di Rosario Faraci (Edizioni Sindacali). All’inizio del testo si motivano le ragioni della sua stessa nascita: sempre di più aumentano le richieste sociali per un modo di fare impresa che tenga conto dell’impatto (pressione) ecologico nei confronti dell’ambiente. L’impresa moderna si discosta dai modelli passati in quanto è più attenta alle sensibilità che pongono l’attenzione alle tematiche sociali ed ecologiche.
Si prospetta una impresa in cui si rispettino i bisogni di tutte le parti sociali coinvolte. Sia interne all’impresa, come i lavoratori, che esterni ad essa, come l’ambiente naturale e la società in cui l’impresa agisce.
In questo scritto l’autore prova a rispondere ai quesiti che possano contribuire a sostenere una forma alternativa all’attuale imprenditoria. Un libro che parla di imprenditoria con un linguaggio e termini economici che presuppongono una conoscenza inerente all’argomento e alla terminologia usata.
Percorrendo il testo, si scopre un veloce quadro delle crisi economiche avvenute in tempi e luoghi differenti, riferendosi in particolar modo alla situazione in Italia. Si parla della crisi dell’offerta e della domanda nel periodo pandemico che ha aggravato la situazione economica delle imprese. E si delinea un nuovo modello di fare impresa cercando di comunicare le principali differenze tra vecchio e nuovo modello.
Un nuovo modo di fare impresa
Sostanzialmente uno dei ruoli principali è ricoperto dal manager che deve applicare un nuovo modo di fare impresa. Con attenzione alle nuove richieste e alle nuove tematiche, tra le quali di principale importanza, vi sono l’ambiente e i pieni diritti lavorativi. Si cerca di dare una risposta a queste esigenze dando un’alternativa a questo capitalismo sfrenato, sostenendo la possibilità di cambiare verso un capitalismo “buono”. Un capitalismo che attenzioni, appunto, l’ecologia cercando di non sfruttare le (ormai scarse) risorse naturali e ricercando alternative più sostenibili.
Si parla del Global Compact, un’associazione a livello internazionale nata in America e che si propone di dare dei principi a cui tutte le imprese del mondo dovrebbero riferirsi.
Ho trovato interessante e pertinente il fatto che in supporto alle idee esposte, l’autore abbia riportato un modello di impresa reale come esempio, quello dell’ azienda di Adriano Olivetti.
A questo punto, mi viene da chiedere, come riflessione personale, se può esserci davvero un’impresa che sia rivolta a soddisfare i bisogni umani rifiutando ogni forma di sfruttamento di risorsa. Che essa derivi dal lavoro umano o da quella ambientale, salvaguardando e ottimizzando contemporaneamente il proprio interesse.
Questa impresa più “umana” può davvero convivere in una società in cui prevale il modo di produzione capitalistico? Esiste un capitalismo “buono”? O è necessario un radicale cambiamento di rotta che rifiuti il profitto dei pochi andando verso una società in cui nessuna donna o uomo venga sfruttato a favore dei pochi, e dove vige eguaglianza sociale, politica ed economica? Lascio al lettore la riflessione.
Grazia Pagano