Con “Specchio delle mie trame”, l’ultima fatica di Paolo Sessa, l’Autore ci offre sei storie diverse, che si rimandano e si legano l’una all’altra in forza di un comune denominatore tematico; sceglie, cioè, di rilegare in secondo piano l’importanza della longa fabula, venendo così a proporsi come uno scrittore sperimentale e innovativo. Guidato dalla consapevolezza che la letterarietà non è l’essenza ontologica della scrittura, ma che essa risiede unicamente nel suo funzionamento, egli opera un ingegnoso rovesciamento dialettico della tradizione narrativa otto-novecentesca: fa divenire il tema l’ipostasi di una complessa struttura narrativa, la cui frammentarietà è solo apparente.
Flautata e immaginativa, là dove occorre che i toni diventino lievi; asciutta e scultorea, là dove il lettore è chiamato ad esercitare il suo raziocinio, la scrittura di Sessa, sin dalle prime righe, mostra di volere invitare il lettore a non volersi accontentare del dilettevole e fugace consumo di una fabula. Arricchita, inoltre, da un lessico preciso e sempre appropriato; misurata e scevra di futili ridondanze; scritta in una prosa sempre euritmica, sempre equilibrata e sonora, e mai manieristica o aulica; l’opera di Paolo Sessa è, dunque, da leggere, rileggere e meditare.
Per quanto ci riguarda, da questa lettura abbiamo imparato, da un lato a non temere l’Ombra che appanna il nostro volto riflesso sullo specchio, e dall’altro che “ l’homunculus invisibile e cattivo” che da dietro vi traccia “trame per rovinarci la giornata”, in definitiva siamo noi. Fuor di metafora, l’homunculus apre spazi vertiginosi nella sfera riflessiva della coscienza, spazi che siamo chiamati ad esplorare nonostante ci ostacoli il cumulo di sintomi inascoltati delle nostre nevrosi.
Nell’opera di Sessa compaiono sei personaggi in cerca di se stessi, sei diversi individui intrappolati in una condizione di disagio esistenziale che li costringe a confrontarsi con la propria Ombra, a prendere confidenza con essa, per poterla riconoscere e ascoltare, al fine di pervenire a quel pieno compimento di sé, che Gustav Jung definisce processo di individuazione dell’io. Questo riferimento a Jung è una possibile chiave di lettura personale, e spero non arbitraria, di Specchio delle mie trame.
Di cosa tratta l’opera? Il procedimento intellettuale che Paolo Sessa segue nel concepire la sua opera discende dalla concezione che egli ha della letteratura. L’opera, dunque, si compone di sei racconti, di sei fabule diverse, che però sono legate, da un comune tema: il disagio umano ed esistenziale dei sei personaggi; il che non significa che il singolo racconto non abbia una propria autonomia, ma che l’autonomia di ogni singolo racconto si coglie soltanto al livello più immediato della sua fruizione.
Apparirà a tutti evidente che se operiamo un rovesciamento dialettico (come tacitamente fa l’autore) tra personaggi e tema, e facciamo diventare il tema (rappresentato dal disagio e dal suo superamento) il vero ed unico protagonista di quest’opera, noi ci veniamo a trovare di fronte a un romanzo, e non più dinanzi ad una silloge di racconti. Dinanzi ad un romanzo sui generis, naturalmente; o meglio, dinanzi ad un nuovo genere di romanzo, sperimentale nella sua articolazione strutturale, e non nelle sue forme espressive come, invece, avviene in quello, o in quelli, della neoavanguardia del Novecento. Se tale ipotesi fosse corretta, si dovrebbe riconoscere che il nocciolo fuso di questa sperimentazione risiede in una dimensione meta-letteraria e di conseguenza indiscutibilmente postmoderna.
Perché Sessa rinuncia a produrre sei romanzi, e scrive, invece sei racconti? Avrebbe potuto scrivere sei romanzi e non l’ha fatto, perché? Per pigrizia? Per non passare troppo tempo alla macchina da scrivere? No! E il lettore lo scoprirà alla fine del libro dove l’Autore lo esplicita con estrema chiarezza attraverso il suo personaggio-scrittore.
Sessa, ve ne accorgerete leggendolo, conduce la fabula al limite delle sue possibilità e costruisce l’intreccio con la consapevolezza che l’artificio letterario pone un dilemma che pregna di sé ogni pratica scrittoria; un dilemma che non può essere sciolto con riferimenti di carattere estetico generale, perché in Sessa ciò che attiene alla sfera dell’estetica e della poetica viene a connotarsi come un imperativo categorico e, cioè, come un problema morale.
Prendiamo in considerazione l’ultimo racconto: compare un cadavere in mare con il suo inestricabile grumo di dolore e di insondabile mistero: “ È qui maresciallo… l’ho trovato…”; compaiono due volte tre puntini di sospensione che ci dicono immediatamente che Sessa appartiene alla tradizione realistica della letteratura occidentale. Infatti, quei punti potrebbero stare al posto di parole che si perdono nel fragore delle onde, oppure potrebbero segnare i momenti in cui il sommozzatore chiude la bocca per non bere, o probabilmente, rappresentano le pause necessarie perché egli possa respirare, o addirittura rappresentano le tre cose insieme. Sessa continua con icastica precisione: “ gridava il giovane sommozzatore della guardia costiera, affacciato sul pelo dell’acqua, ansante, con la maschera sollevata sopra la fronte,”. E più avanti:“ è qui, maresciallo l’ho trovato”.
Dopodiché l’autore fa una riflessione: “ le parole risucchiate dalla brezza giungevano in alto insieme alle voci dei gabbiani stanchi, al loro ultimo volo prima della sera”. Chiama “voci” gli strilli dei gabbiani: li umanizza dunque. La conferma ce la dà il maresciallo che fatica a sentire e a distinguere quelle voci da quelle umane, in quanto c’è “casino” e non si sente nulla. Uno scrittore manierista avrebbe detto strilli anziché voci, avrebbe detto chiasso o frastuono anziché casino, e così facendo ci avrebbe maldisposti alla lettura di quest’ultimo racconto. Invece ciò non avviene, grazie al realismo di Sessa il cui assioma di base è: in letteratura il realismo è tutto. Ma il realismo di Sessa, stiamo attenti, non è naturalismo piatto o una banale riproduzione fotografica del reale; non è un verismo di tipo positivistico e ottocentesco che avrebbe deluso i nostri palati di lettori raffinati. Sessa non è così ingenuo da fotografare e basta, senza concedersi quegli scarti linguistici che decidono della bontà di un testo letterario. Egli sa che le digressioni sono i luoghi d’elezione in cui il letterario nella sua specificità si manifesta e scrive: “ La notte correva veloce sulle ali dei gabbiani e si posava greve su quel mare crespato di settembre, imbrattandolo di buio e di timori.” E più avanti torna a scrivere” All’improvviso, la luna inondò di luce il tratto di mare sotto le rocce e il giovane riprese a urlare,” e poi ancora, più avanti, sempre parlando di quel cadavere scrive: “gonfio come un otre, bianco come la luna di quella sera di settembre.” Notate queste opposizioni quasi ossimoriche: “gonfio” e “bianco”, “otre” e “luna”. Come sarebbe stato diverso se avesse detto: rigonfio d’acqua e pallido come la luna: l’effetto sarebbe stato banale, non ci sarebbe stato scarto linguistico e, quindi, sarebbero venuti a mancare i tasselli semantici con cui si costruisce la grande macchina della narrazione letteraria.
I riferimenti digressivi alla notte e alla luna, non sono funzionali allo svolgimento della fabula, ma sono indispensabili all’intreccio. Se Sessa stesse scrivendo un rapporto poliziesco, o un articolo di cronaca per L’Unione Sarda, queste digressioni sarebbero persino apparse improprie, fuori registro, ridicole, ma Sessa sa che sta facendo letteratura, sa che senza queste digressioni la letteratura sarebbe finita in fondo al mare come quel cadavere che si tenta di ripescare. Andiamo avanti, chi è stato trovato? Un suicida. E qui pian piano la letteratura si fa metaletteratura e il problema morale viene posto come un fondamento ineludibile dell’operare letterario, come un imperativo categorico che attende di essere formulato in tutta la sua formale universalità.
Sessa scrive: ”Ecco i fatti, pensò Luca, lasciando cadere la fotostatica sulla scrivania, e lui avrebbe voluto costruirci su un castello di parole. Era questa la letteratura? La luna d’argento sul mare e i gabbiani attorno alle rocce rosse di Arbatax? Aveva forse paura della realtà? I fatti sono sempre morali, era lui a pensarlo, nessuno glielo aveva mai insegnato, e tutto ciò che era morale non poteva fargli paura. Anche la luna d’argento era morale, e i gabbiani attorno alle rocce erano morali, non era morale, forse, metterli attorno ad un cadavere a bella posta.”
Chi è Luca? Luca è un personaggio molto speciale che, ad un tratto, appare con tutta la sua problematicità: Luca è lo scrittore che sta scrivendo il racconto di Marco Lodini, il sucida; ma questa è la novità meta-letteraria di questo romanzo sui generis: Luca non è un autore che opera una improvvida invasione di campo, non è l’autore che improvvisamente, con una pesante intrusione, rompe la nostra concentrazione di lettori per farci un sermone prendendo spunto dai pensieri, dal carattere o dalle azioni più o meno riprovevoli o, al contrario, più o meno edificanti dei propri personaggi. Luca è colui che chiude il percorso narrativo, e lo fa a suo modo, in un modo intrigante che chi non legge l’opera non potrà mai prevedere.
Ma siamo sicuri a questo punto che Luca sia il narratore dell’ultimo racconto soltanto e non, anche del primo, del secondo e così via. Sessa non lo dice, ma nemmeno ci fornisce elementi per poterlo escludere. Come comincia il primo racconto?
“L’acquazzone aveva schiarito l’aria e l’orizzonte, alto sulla prua, appariva ancora più sottile e lontano; la brezza leggera, ma insistente, spezzava i flutti in mille frange schiumose con le quali giocava prepotente, tessendo candide trine per sciogliersi ancora in capricciose aeree bolle.”
Si consideri con quanta leggerezza questi due aggettivi “capricciose aeree” precedono il sostantivo “bolle” creando un senso di sospensione e di elevazione privo di enfasi retorica: caso raro quando due aggettivi anticipano un sostantivo. “ A prua le onde frangevano rumorosamente contro la chiglia del Poeta e sollevavano in alto perle leggere di frescura zampillante”. Prima i grandi piani, poi a stringere sino ad avvicinarsi lentamente, con la tecnica dello zoom, al personaggio, Dino. Questo incipit è una grande scena pittorica, non statica, perché tutto è in movimento. Il viaggio verso l’ignoto comincia: il collezionista di immagini, lo scrittore Sessa è divenuto un regista, sta girando un film. Così comincia questo particolare romanzo, come un film.
“Alle spalle il sole calava lento, lanciando bagliori di fiamma su un altro orizzonte lontano, Dino pareva il vecchio comandante d’un antico veliero, a guardia del vento e delle onde.” Qualche riga dopo, troviamo un gabbiano che torna indietro; “ non aveva trovato il coraggio d’affrontare l’ignoto di un lungo viaggio,” il coraggio che dovrà trovare in sé Dino, il personaggio a cui si rivelerà qualcosa di inatteso e quasi di irreale: non a caso le rivelazioni più significative gli vengono fatte nella dimensione surreale del sogno.
La grande macchina letteraria è un grande circolo, comincia con gli elementi acquorei della natura: acquazzone, mare; con gli elementi leggeri e aerei: frescura zampillante, brezze, schiume e acque che si elevano in leggere bolle, e perle leggere che si elevano dinanzi alla prua del Poeta, e con esse si chiude.
Tutto comincia con luminosità discrete e fioche: il colore bianco della luna è anche del cadavere suicida; su tutto risplendono luminosità che hanno bagliori di fuoco, ma solo per poco, perché il sole è al tramonto, sia nel primo come nell’ultimo racconto; e la luna è l’unica luce bianca e pacata che illumina il tutto.
Il tema della elevazione ci avverte e ci anticipa che è cominciato un viaggio iniziatico, è un topos questo ricorrente in tutta la letteratura dell’Occidente, lo troviamo nel poema del terribile e venerando Parmenide e, a seguire, ogni qual volta inizia un viaggio che dovrà condurre verso un più alto stato di coscienza.
Gli stessi elementi ritornano nell’ultimo racconto. Ma la circolarità di questa grande e funzionale macchina narrativa si ripresenta anche in altro modo: un morto rivela un segreto iniziatico nel primo racconto, Seroni; un morto nasconde e custodisce un doloroso segreto nel finale di Marco Lodini, il suicida.
Siamo proprio convinti che si tratti di una silloge di racconti autonomi e non di un nuovo genere di romanzo?
Ma perché Sessa ricorre a questo espediente, perché nasconde un romanzo entro una silloge di racconti? Semplice: Sessa non sente più il romanzo, la longa fabula, come la forma narrativa fondamentalmente rappresentativa del nostro tempo. Il romanzo lo obbligherebbe a scrivere in un modo che egli non ama.
Per fare, dunque, di ogni racconto di quest’opera un romanzo, sarebbe stato necessario immettere nel testo delle espansioni che Sessa non ama, e che considera “spazzatura”. Esempio: per far divenire un romanzo il racconto de Il caso Lodini sarebbero occorse delle espansioni o delle digressioni più lunghe che avrebbero conferito al testo, o una liricità ridondante che mal si adatta alla prosa, oppure una melensità del tutto ordinaria e, nondimeno, necessaria, del tipo: “Il maresciallo era seccato” e di conseguenza spiegarne le ragioni; aprire una prolessi di almeno tre pagine per spiegare cosa l’aveva, in precedenza, infastidito: una lontana e traumatica rimembranza del rinvenimento del suo primo cadavere quando era entrato in servizio, ad esempio, sul lago di Garda? Oppure l’aver dimenticato a casa l’accendino? O il pacchetto, con le due ultime sigarette che aveva in tasca, si era bagnato, in quella operazione di ripescaggio del cadavere? Sarebbe stato necessario, dire qualcosa in più del palombaro; se era “affannato” ci doveva essere un motivo: era fuori forma? era ammalato? aveva pranzato molto tardi quel giorno, e digerito male, aveva avuto una brutta discussione con la moglie?
Bene anche queste cose fanno un romanzo! Ma Sessa, da buon postmoderno, sa che tutta questa “spazzatura”, immagine speculare della vita quotidiana, non è più letteratura, per cui la scarta e se ne tiene lontano.
Il romanzo, sembra volerci dire Sessa, si può scrivere in modo diverso, operando il rovesciamento tra personaggio e tema, nascondendo l’unità nel frammento e ricucendo il frammento in una superiore e non fittizia unità funzionale.
Lucio Paolo Alfonso