Giustizia, carità, onestà coniugate assieme, nella riflessione del Papa sulle parole che Giovanni Battista pronuncia in risposta alla domanda della gente al fiume Giordano: che cosa dobbiamo fare per prepararci alla venuta del Messia. Subito l’immagine delle due tuniche, una da tenere, l’altra da donare a chi non ne ha. Poi il potere che chiede rispetto delle leggi, dei comandamenti – il settimo, non rubare, riferito ai pubblicani, cioè gli esattori delle tasse per conto dei romani – che domanda onestà nel trattare gli altri. La giustizia, afferma papa Benedetto all’Angelus, “chiede di superare lo squilibrio tra chi ha il superfluo e chi manca del necessario; la carità spinge a essere attento all’altro e ad andare incontro al suo bisogno, invece di trovare giustificazioni per difendere i propri interessi. Giustizia e carità non si oppongono, ma sono entrambe necessarie e si completano a vicenda”.
Parole che fanno eco a quelle volute dai padri conciliari per sottolineare il peccato sociale della disparità, del mancato sviluppo di popoli e nazioni. Già nella costituzione sulla Chiesa e il mondo contemporaneo – la più volte citata “Gaudium et Spes” – il tema degli squilibri e della giustizia viene ampiamente affrontato: “Una rapida evoluzione, spesso disordinatamente realizzata, e la stessa più acuta coscienza delle discrepanze esistenti nel mondo, generano o aumentano contraddizioni e squilibri”. E ancora più avanti si legge la preoccupazione per i contrasti “che sorgono tra le razze e i vari gruppi della società; tra nazioni ricche e meno dotate e povere”. Guardiamo poi con quanta lungimiranza i padri conciliari affrontano il tema della diversità tra Paesi ricchi e nazioni in via di sviluppo, sottolineando le “aspre rivendicazioni” di tanti che sono stati privati dei beni “per ingiustizia o per una poco equa distribuzione”. Gli Stati in via di sviluppo o appena giunti all’indipendenza – proprio mentre si prepara il Concilio, annunciato da papa Roncalli a San Paolo, ben diciassette colonie africane ottengono, nel 1960, l’indipendenza; la “Gaudium et Spes” è promulgata solo cinque anni dopo, il 7 dicembre 1965 – “desiderano partecipare ai benefici della civiltà moderna, non solo sul piano politico ma anche economico” e, invece, “cresce ogni giorno la loro distanza e spesso anche la dipendenza economica dalle altre nazioni più ricche, che progrediscono più rapidamente”.
Già in queste parole si può cogliere la preoccupazione che il mancato sviluppo e la disordinata crescita, o meglio non crescita, di nazioni avrebbe portato a conseguenze disastrose in molte nazioni. E proprio in altre pagine della costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo troviamo quasi un’anticipazione anche della difficile crisi economica che stiamo attualmente vivendo, quando viene evidenziato come alcune persone, soprattutto nelle regioni economicamente sviluppate, sono rette “quasi unicamente dalle esigenze dell’economia”; eppure un’economia “orientata e coordinata in una maniera razionale e umana, potrebbe permettere un’attenuazione delle disparità sociali”. E invece accade che queste disparità si aggravano. Per di più anche all’interno degli stessi Paesi meno sviluppati esiste una disparità profonda tra “folle immense” cui manca lo stretto necessario, e coloro che “vivono nell’opulenza o dissipano i beni”. È il dramma dei regimi dittatoriali in diverse nazioni del Sud del mondo: povertà diffusa e risorse destinate non alla crescita del Paese ma a incrementare le spese militari e la ricchezza di alcuni. Il Concilio ricorda ancora che i “beni creati debbono, secondo un equo criterio, essere partecipati a tutti, essendo guida la giustizia e compagna la carità”.
Parole che non sono rimaste ferme, ma che i Papi hanno coniugato nel loro magistero, a partire da Paolo VI che ha denunciato lo scandalo dell’ingiustizia sociale: “I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La Chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello”. Le aspirazioni dei popoli per papa Paolo VI si possono riassumere in questa frase: “Essere affrancati dalla miseria, garantire in maniera più sicura la propria sussistenza, la salute, un’occupazione stabile; una partecipazione più piena alle responsabilità, al di fuori da ogni oppressione, al riparo da situazioni che offendono la loro dignità di uomini; godere di una maggiore istruzione; in una parola, fare conoscere e avere di più, per essere di più”.
Dopo di lui Giovanni Paolo II che nel suo discorso a Puebla, a pochi mesi dall’elezione, ha parlato di “ipoteca sociale” che grava sempre sulla proprietà privata. Temi sviluppati anche nelle sue encicliche “Laborem exercens” e “Redemptoris hominis”. La dimensione morale dello sviluppo per papa Wojtyla significava anche rivedere, in termini di reciprocità e solidarietà, tutti i meccanismi che regolano i sistemi di produzione e di scambio e la stessa economia di mercato: temi che il Papa ha affrontato in altri suoi documenti quali la “Sollicitudo rei socialis” e la “Centesimus annus”.
Papa Benedetto nel dicembre 2005, l’anno della sua elezione, affida alla Chiesa la sua prima enciclica “Deus caritas est”, dove il tema della giustizia è coniugato con l’impegno del credente nella società, perché se è vero che la Chiesa “non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato”. È altrettanto vero che “non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell’argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare”.
Come dice il Concilio “il bene comune si concretizza nell’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani, nelle famiglie e nelle associazioni il conseguimento più pieno e più rapido della loro perfezione”.
Fabio Zavattaro