Il 23 gennaio 2022 segna per la comunità di Linguaglossa i festeggiamenti dei 70 anni di Padre Orazio Barbarino. Il sacerdote, nato a Piedimonte Etneo nel 1952 ed ordinato dal 1976, svolge il proprio ministero dal 2010 presso la Parrocchia di “Santa Maria delle Grazie”. Abbiamo raggiunto per un’intervista Padre Orazio, che ha accettato volentieri di raccontarci questi decenni di servizio al territorio.
Come nascono la sua vocazione e il suo percorso di sacerdozio?
Sono entrato in seminario in prima media, dopo aver frequentato gli anni delle elementari nella mia città d’origine. Fin da bambino sono stato instradato dal prete del mio paese ma ho sempre sentito dentro di me la forte necessità di camminare con gli altri, di poterli aiutare, di potermi sentire pienamente parte di qualcosa. Ho sempre onorato le mie origini e le mie radici culturali, sociali ed etiche ed è anche per questo che, durante gli anni di lavoro ad Acireale sono riuscito a distinguermi. Infatti, nei pressi della Città del Fanciullo, per oltre dieci anni sono riuscito a coinvolgere una buona parte dei cittadini così da creare una forte e sentita comunità. Nessuno me lo aveva imposto, però ho sentito il dovere di farlo.
Ha vissuto, durante questi anni di sacerdozio, in tre diverse comunità: ha avvertito molte differenze?
Le tre comunità sanciscono tre realtà molto distanti tra loro seppur con delle affinità: ognuna di esse ha la propria storia nonostante oggi viviamo in quel che Mc Luhan definisce villaggio globale. Ogni luogo bisogna viverlo pienamente e l’unico modo per poterlo fare è stabilendo dei legami con le persone, con i luoghi, con la comunità. Il mio compito è quello di inserirmi in una storia di vita, senza impormi, camminando insieme alla comunità dando speranza e futuro.
Quand’ero parroco ad Aci Platani il mio obiettivo era quello di dare dignità ad una frazione pressoché dimenticata con ideali, progetti e rivendicazioni. Durante gli anni del sacerdozio a San Paolo ho reintrodotto la festa del Santo. Ed è capitato che San Sebastiano e San Paolo “si incontrassero”, creando poesia. Da dodici anni vivo la realtà di Linguaglossa. Ho introdotto la novità di lasciare le porte della chiesa Madre aperte, dalla mattina alla sera. Questo perché la chiesa fa parte del corredo urbano e come tale dev’essere sempre a disposizione, per i credenti o meno.
C’è qualcosa che si porterà a vita come esperienza durante il sacerdozio?
Sono riuscito ad instaurare grandi amicizie in qualsiasi contesto mi trovassi. Legami molto forti, anche a distanza di quasi mezzo secolo, come l’amicizia che mi lega a Vincenzo Spampinato o che mi legava al grande Franco Battiato. Sono da sempre riuscito a creare dei cammini, sul piano della cittadinanza, della fede, della ricerca. Mi sono da sempre prefissato un obiettivo: regalare dei racconti, dei regali, condividendo speranze ed ideali, senza fare i maestri ma senza rinunciare a parlare, dicendo la propria.
Linguaglossa / I 70 anni di Padre Orazio Barbarino
I miei 70 anni sono una cifra tonda che celebrerò a Linguaglossa. Insieme alla comunità abbiamo pensato di celebrarli portando il reliquiario della Madonna delle Lacrime di Siracusa che nei giorni di venerdì, sabato e domenica accoglieremo. Questo vuole essere un messaggio, il messaggio delle lacrime. Un messaggio che attesta le tristi e crude realtà d’oggi, come un invito antropologico. D’altronde il linguaggio delle lacrime è universale: è la purezza del cuore che permette di capire pienamente i sentimenti. Omaggerò i presenti con un segnalibro (nella foto, ndr) con la chiesa di San Damiano ed una frase di Don Milani, di cui mi considero un discepolo.
Che ruolo ha avuto la Chiesa durante la pandemia?
La Chiesa ha da sempre un compito storico: essere una lampada accesa. E secondo me è stata una delle realtà più rilevanti durante la pandemia. Anche se, noi per primi abbiamo avuto le nostre piccole difficoltà, soffrendo con l’intera popolazione. Sentiamo ancora oggi la contrazione di presenze e non nascondo la mia preoccupazione per il futuro dei nostri ragazzi, ormai chiusi in se stessi. Sarebbe ipocrita dire che la pandemia non ci ha cambiati. La pandemia ci ha resi più fragili, più individualisti, più silenziosi. L’augurio che faccio è che questa pandemia possa finire e rimanere un lontano ricordo. Che si possa ripartire daccapo, con i racconti, con i percorsi, con i lavori in comunità, riprendo di nuovo in mano le nostre vite lì dove le abbiamo lasciate.
Giorgia Fichera