Lui non aveva mai visto un’isola.
L’isola, secondo il vocabolario, è un pezzo di terra, piccolo o grande, circondato dal mare da tutte le parti.
E lui non aveva mai visto il mare; e per la verità neanche molta acqua tutta in una volta, vivendo ai margini del deserto.
Lì l’acqua c’era solo in un’oasi, dove sgorgava dalla sabbia, giungendo da chissà quali strade sotterranee attraverso chilometri e chilometri di deserto.
Attorno crescevano altissime palme da datteri; sotto producevano frutti dolcissimi alberi di fichi e di melograni e sotto ancora coltivavano ortaggi e foraggio per gli animali.
Così non si sprecava neanche una goccia d’acqua e si riusciva a sopravvivere con quel poco che cresceva nella sabbia e grazie a un piccolo gregge di capre che brucava la poca erba e qualche arbusto.
Lui lavorava nei campi e pascolava le capre, con quel gran caldo che faceva.
Il lavoro maggiore era per la raccolta dei datteri: era agilissimo ad arrampicarsi sulle piante e a tagliare e buttare giù i grossi grappoli di frutti zuccherini e nutrienti.
Ma finiti i datteri si faceva la fame.
E poi la sera non c’era niente da fare, se non guardare il tramonto sul deserto, che era bellissimo ma era sempre lo stesso e la sera le stelle che erano un’infinità e non essendoci altre luci, si riuscivano a vedere anche quelle piccole come una capocchia di spillo.
Ogni tanto faceva un breve viaggio sul dorso non troppo comodo di un dromedario per andare nel villaggio vicino a scambiare qualche merce al mercato e tornare con qualche novità.
Stavolta aveva portato un giornale illustrato, proveniente dall’Europa, scritto in una lingua di cui capiva solo qualche parola. Ma le foto si capivano benissimo e sembravano appartenere a un altro mondo: c’erano case magnifiche, auto meravigliose, donne bellissime e uomini eleganti, supermercati pieni di cose da mangiare di tutti i tipi, altro che datteri e latte di capra…
I bambini erano felici, belli biondi e paffuti e giocavano con un’infinità di giocattoli.
Lì tutti sembravano ricchissimi, pareva ci fosse lavoro per tutti e per giunta redditizio e poco faticoso.
La sera al tramonto si era messo a sfogliarlo sotto una palma, con gli altri giovani del villaggio. E tutti erano rimasti incantati a vedere quelle immagini.
Quella notte i sogni nelle tende del villaggio furono tutti uguali. Ognuno sognava quel paese bellissimo: di essere lì, di lavorare, di guadagnare tanti soldi e comprare vestiti, cibo, auto e televisioni. Qualcuno più saggio non sognava solo di divertirsi, ma anche di mettere da parte da parte qualcosa da inviare a casa per i familiari e anche per realizzare qualcosa quando sarebbe tornato: una casa, un negozio, un pozzo.
Lui aveva messo la rivista sotto il cuscino e ci aveva dormito sopra, rivedendo in sogno tutti i particolari di quel meraviglioso paese. Il sogno si era ripetuto ogni notte, così lui aveva deciso di sapere qualcosa di più.
La volta successiva che andò al mercato della grande città chiese a tutti quelli che conosceva notizie su quel paese, su come arrivarci, quanto costava…
Il venditore di tappeti, che per il suo lavoro aveva girato il mondo, gli diede le notizie che lui voleva e gli indicò a chi rivolgersi.
Il tipo, in apparenza gentile, non sembrava troppo raccomandabile. Gli disse da dove si partiva e quanti soldi occorrevano e gli fissò l’appuntamento fra un mese.
Non fu facile raccogliere i soldi, che erano tanti: ma tra i suoi risparmi, il ricavo della vendita di qualche capra e un contributo della sua numerosa famiglia, ci riuscì.
Lui iniziò a contare i giorni che lo separavano dalla partenza e sognava ogni notte un’isola, perché gli avevano detto che il punto più vicino dove sbarcare era un’isola.
Immaginava questa distesa d’acqua salata che era il mare da attraversare, provando a moltiplicare per mille, per un milione la pozza d’acqua che c’era al centro dell’oasi.
E quest’isola felice, dove realizzare finalmente i suoi sogni. Se la immaginava grande, piena di verde e di acqua, con grandi città, negozi immensi pieni di roba, strade e autostrade, aerei che sfrecciavano come quelli che ogni tanto sorvolavano altissimi il suo deserto, lasciando dietro di sé una scia bianca, come una strada nel cielo che il vento si affrettava a spazzare.
Immaginava la gente, con la pelle di colore un po’ più chiaro della sua, gentile e rispettosa e disposta ad aiutarlo. Immaginava un lavoro onesto e ben retribuito; in seguito avrebbe fatto venire lì qualcuno dei suoi fratelli e perché no, anche la ragazza che spesso guardava quando andava a prendere l’acqua all’oasi e con cui sperava di mettere su famiglia.
Arrivò il giorno della partenza.
Si ritrovarono al punto stabilito che ancora era buio. Furono caricati tutti su un vecchio camion e viaggiarono per tre giorni, con un caldo terribile e con poca acqua e cibo, su una pista sabbiosa nel deserto.
Si fermavano la notte, dormivano a terra qualche ora e ripartivano all’alba.
Il terzo giorno arrivarono, a sera, nei pressi di una città; in lontananza si vedevano le luci, che via via sembravano più vicine.
Si fermarono in periferia; li fecero scendere e li chiusero in un grande magazzino per la notte.
Lì c’erano altre persone che attendevano di partire. Anche a loro avevano parlato di un’isola meravigliosa in mezzo al mare, con giardini di aranci e popolata da gente ospitale.
Lui sognò a occhi aperti per tutta la notte l’isola felice. Già si vedeva lì.
All’alba si imbarcarono in tantissimi su un vecchio barcone. Il mare era agitato, il motore della barca era malandato e ogni tanto si fermava e ci volevano pazienza e fortuna per farlo ripartire.
Il viaggio, che doveva durare solo poche ore, già proseguiva da due giorni, girovagando per il mare.
L’acqua era finita e la terra ancora non si scorgeva: nessuna isola all’orizzonte.
Tutti erano preoccupati e stavano ormai per perdere le speranze.
Finché il barcone non si fermò, come se si fosse incagliato in qualcosa.
Era la rete di un peschereccio e i suoi marinai sentirono lo strattone, fermarono i motori e cercarono di capire cosa fosse successo. Videro il barcone che stava quasi per affondare. Si avvicinarono, legarono una robusta cima alla prua e cominciarono a trainarlo verso terra.
Arrivarono al porticciolo di un’isola, dove c’erano tante barche di pescatori che sistemavano le reti e scaricavano cassette di pesce.
Ma non era l’isola felice che avevano sognato. Era un’isoletta piccola e arida e finirono tutti in un casermone dove furono interrogati: fu chiesto loro come si chiamavano, da dove venivano, che facevano…
Da lì furono trasferiti in un’isola più grande.
Lui si incamminò tra la spiaggia e la campagna per una mezza giornata e si ritrovò alla periferia di una piccola città.
Entrò, arrivò in piazza e vide alcuni che sembravano venire dal suo paese e vendevano oggetti e tappeti. Si precipitò a salutarli e a chiedere informazioni su dove poteva andare, mangiare, dormire, lavorare.
“Una cosa per volta – gli risposero – vedrai che tutto si sistemerà.”
Così andò a mangiare in un grande salone, con tanti altri, dove c’era un signore con una lunga tunica, come quelle del suo paese, ma scura anziché color sabbia e dei ragazzi che lo aiutavano a cucinare e dividere il pasto.
Per dormire lo ospitò uno degli uomini che aveva incontrato in piazza: “Solo per qualche giorno, in attesa di una sistemazione”.
L’indomani era già a lavorare nei campi, a raccogliere pomodori, perché questa era la stagione dei pomodori.
Il lavoro era faticoso, pagato poco e lo chiamavano “in nero” e lui non capiva perché: forse perché vi lavoravano tante persone dalla pelle scura?
Raccoglieva pomodori dalla mattina alla sera, faceva caldo e non c’erano le palme a fargli ombra come nella sua oasi. Le palme gli mancavano e gli mancava la sua famiglia, un po’ anche il deserto con i suoi tramonti e le sue stelle.
E l’isola non gli sembrava troppo felice: si vedeva sì qualche persona ricca, con grandi macchine, gioielli e vestiti molto eleganti. Ma la maggior parte erano persone normali, che lavoravano, vivevano in una casa normale, giravano in auto normali o a piedi, erano abbastanza gentili ma c’era anche qualcuno che lo trattava male.
Però la paga era comunque più di quello che gli rendevano i datteri e il latte delle capre, il cibo era più vario e la vita più interessante che nell’oasi del deserto.
Una sera dopo il lavoro, era andato a girare la città vicina con altri raccoglitori di pomodoro, aveva trovato finalmente le palme.
Ce n’erano tantissime in un parco, alcune sembravano da datteri ma non avevano frutti, altre erano simili, altre ancora di specie che non aveva mai visto, ma erano palme di certo.
Al centro del parco c’era una grande vasca, da cui zampillava l’acqua. Sembrava un po’ la sua oasi, ma i viali erano coperti di cemento e nelle vasca nuotavano anatre e pesci rossi.
Lui cominciò ad andarci spesso la sera quando finiva di lavorare e se la giornata era buona e non era troppo tardi, riusciva anche a vedere il sole che tramontava.
Una sera al parco non c’era nessuno: fu preso dalla voglia di arrampicarsi su una palma; si guardò bene intorno, per non farsi scoprire da qualche custode e nel giro di mezzo minuto fu in cima fu in cima alla palma più alta, da dove si vedeva buona parte della città. Si sentiva felice, ma scese subito prima di essere visto.
Finirono i pomodori, poi ci fu la vendemmia, poi la raccolta delle arance.
Bene o male lavorava, aveva trovato una stanza a poco prezzo, si era fatto degli amici tra quelli del suo paese e anche qualcuno tra gli abitanti dell’isola, aveva cominciato a imparare qualche parola della lingua. Un giorno aveva visto in un negozio un manifesto che pubblicizzava una sagra del cous cous, che lui mangiava nel suo paese e lì vicino c’erano del libri che parlavano di arabi che tanti secoli prima avevano dominato l’isola. Di quel tempo restavano qualche monumento, parecchie parole, molte ricette di cucina e un po’ il modo di fare simile al suo, forse per il caldo, forse perché avevano qualcosa in comune.
Un giorno in cui non lavorava era andato al parco di mattina e fu sorpreso da un insolito via vai di gente attorno alle palme. Sembravano studiosi, perché erano in giacca e cravatta e con tanti libri che aprivano e richiudevano. Con loro c’erano alcuni in tuta da giardiniere, con attrezzi da lavoro.
Guardavano le palme. Anche lui le guardò attentamente e vide che qualche pianta era meno verde delle altre e con qualcuna delle grandi foglie quasi secca. Si avvicinò per potere capire qualcosa: certamente erano preoccupati per le palme; qualche strana malattia le aveva attaccate e rischiavano di seccare tutte e non solo in quel parco.
La sera, quando tutti andarono via, si arrampicò su una palma e per lui che aveva vissuto tanti anni in un’oasi e le conosceva bene fu facile capire il problema: sulla cima delle palme, nella parte più interna e tenera, c’erano dei grossi vermi che mangiavano i germogli e facevano seccare la pianta.
Lui li aveva visto tante volte nella sua oasi. Erano arrivati lì chissà come, forse le loro uova erano state trasportate senza accorgersene su una di quelle grandi palme che era di moda prendere in Africa e trapiantare nei giardini; chi le acquistava aveva fretta di vederle subito già alte senza aspettare che crescessero piano piano negli anni come accade nel deserto.
Lui sapeva come fare per evitare che le piante seccassero: glielo aveva insegnato suo nonno, a cui l’aveva insegnato suo nonno e così via per le generazioni che erano vissute nell’oasi.
Prese alcuni di quei vermi e l’indomani mattina li portò ai giardinieri spiegandogli qual era il problema e qual era il rimedio.
I giardinieri furono stupiti e un po’ perplessi, ma vista la gravità della situazione lo fecero parlare con gli studiosi.
Gli studiosi all’inizio non potevano ammettere che un semplice contadino ne sapesse più di loro, ma poiché loro rimedi non ne avevano trovati, lo ascoltarono.
Così prepararono una mistura concentrata ottenuta facendo bollire tanti tipi di erbe, alcune arrivate direttamente dall’oasi e la versarono, con alte scale chieste in prestito ai pompieri, sulle cime delle palme.
Passarono i mesi, le palme non seccarono, anzi ricominciarono a crescere sempre più alte.
Il rimedio funzionava e gli studiosi ne passarono la ricetta ad altri studiosi di altre città.
A lui offrirono un posto di giardiniere, con l’incarico particolare di occuparsi delle palme. Accettò subito, naturalmente.
Era felice: per il lavoro, per la stima che avevano di lui (avevano anche pubblicato articoli con la sua foto su numerosi giornali), per essere stato utile e per avere aggiunto una nuova ricetta (anche se non di cucina) a quella del cous cous portata dai suoi antenati.
Ma più ancora era felice perché la sera, quando finiva di lavorare nel suo parco, poteva sedersi su una panchina e ammirare il sole che tramontava fra le righe delle foglie delle palme, mosse dal vento.
Pippo Scudero