Ernesto Olivero, fondatore del Sermig, ripropone l’urgenza educativa che deve vedere gli stessi giovani come protagonisti. E si chiede: “Quanti giovani dobbiamo ancora veder morire di droga prima di aprire gli occhi? Cosa aspettiamo a ribellarci? C’è bisogno di una ribellione, anche verso lo spinello, perché è l’inizio del cammino perverso”. E ancora: In tante parti del mondo la Chiesa è veramente nella ‘immondizia’ della vita, sta accanto ai più poveri. Nelle ‘periferie’, spesso c’è solo lei”.
Lottare contro la dipendenza chimica: di questo ha parlato mercoledì sera a Rio de Janeiro il Papa quando ha visitato e benedetto una nuova sezione dell’ospedale “San Francesco d’Assisi”. Si tratta del “Polo di attenzione integrale alla salute mentale” che si dedicherà soprattutto alla cura e al recupero dei giovani tossicodipendenti, specie quelli vittime delle droghe chimiche. Il nuovo polo sanitario è stato realizzato grazie al contributo della Cei che ha utilizzato fondi “8 per mille”, nella quota destinata a opere nel cosiddetto “terzo mondo”. Il Sir ha intervistato Ernesto Olivero, fondatore nel 1964 a Torino del cosiddetto “Arsenale della pace” e che tramite il Sermig – Servizio missionario giovani -, ha animato decine di iniziative in favore dei giovani e di quanti si trovano in difficoltà. Una delle opere più significative è “L’arsenale della speranza” a San Paolo del Brasile, che dal 1996 funziona come centro di accoglienza per ben 1200 uomini “senza-tetto” della città. Qui di seguito l’intervista a Olivero.
Il Papa ha parlato della “sofferenza umana” dei ricoverati nell’ospedale di Rio, in particolare tossicodipendenti bisognosi di cure. Cosa dire di questa sofferenza? “Bisogna ringraziare questo Papa e con lui lo Spirito Santo che ce lo ha donato. Si tratta di una grande regalo, soprattutto per la semplicità e profondità con cui ci aiuta a vedere le cose semplicemente da cristiani. Sulla tossicodipendenza bisognerebbe avere un po’ più di coraggio nell’amare veramente i giovani. Vedendo la loro sofferenza, bisogna essere appassionati davvero, per poter dire loro di dare un ‘taglio netto’, dallo spinello alle droghe chimiche. Chi entra in quel giro si fa del male e può fare del male. Bisogna aiutare i ragazzi a starne alla larga”.
Quelli che chiamiamo “drogati” vivono un po’ ai margini della società, in quelle che il Papa ha chiamato le “periferie esistenziali”. Cosa dire loro? “All’Arsenale di Torino sono passati centinaia di migliaia di giovani, alcuni di loro tossicodipendenti. Abbiamo sempre detto di avere il coraggio di ‘dare un taglio’ alle droghe. Agli stessi giovani poi bisogna rivolgere l’invito ad essere più amici tra di loro, più ‘custodi’ gli uni degli altri: se qualcuno è più debole, i più forti dovrebbero aiutarlo. Credo che oggi un’azione incisiva debba consistere nell’aiutare con grande franchezza i ragazzi a imparare a dire dei ‘sì’ e dei ‘no’. Credo che questo Papa, che ama i giovani, possa rappresentare un grosso impulso per ognuno di noi”.
Nell’impegno in difesa dei giovani dalla diffusione delle droghe la Chiesa è più avanti della società? “In tante parti del mondo la Chiesa è veramente nella ‘immondizia’ della vita, sta accanto ai più poveri, è nelle ‘periferie’, spesso c’è solo lei. La gente capisce che chi ama veramente i giovani, chi ama la gente, chi ama i poveri, è sempre in anticipo. La società civile invece non sempre lo è, spesso con la scusa della libertà di scelta, e così non vuol vedere certe cose, dove portano certe ‘libertà’. Tante persone che hanno una grande visibilità dovrebbero essere più appassionate a dire ai giovani che bisogna a volte saper dire ‘no’. Ma per farlo bisogna amare perdutamente i giovani”.
Il Papa ha indicato la pericolosità della ‘dipendenza chimica”. Cosa dire al riguardo? “Potremmo porre la domanda: quanti giovani dobbiamo ancora veder morire di droga prima di aprire gli occhi? Cosa aspettiamo a ribellarci? C’è bisogno di una ribellione, anche verso lo spinello, perché esso è l’inizio del cammino perverso. C’è una parte di mondo molto vasta che non vuole vedere questo dramma immenso”.
I genitori oggi hanno la capacità di educare i loro figli su questo aspetto? “Molti non ce l’hanno, e con loro sono in difficoltà anche educatori, preti, insegnanti. Sono tanti i motivi, ma su tutti occorre imparare a ‘sentire il grido di dolore’ dei giovani, commuoversi con loro, per loro. Oggi troppo spesso un certo professionismo non fa sentire questo grido di dolore”.
Quindi i giovani oggi rischiano di vivere nelle “periferie” dell’esistenza? “Certo, nonostante internet, nonostante i social network. Possono perdersi con grande facilità, ma da loro può anche partire un grande futuro. Bisogna avere un grande cuore per seminare nei loro cuori. Possono essere mandati a seminare speranza al mondo, ma bisogna saper parlare loro, bisogna saperli coinvolgere in grandi sogni”.
La carità, anche quella verso i giovani, oggi è fatta da pochi? “Se la società non mette i giovani al primo posto è destinata a non avere futuro. Ricordo frère Roger di Taize che diceva: ‘un pugno di giovani può cambiare il corso della società’. Da noi a Torino, all’arsenale della pace è stato così. Avevamo un sogno e da arsenale di guerra è diventato di pace. Le persone hanno bussato e hanno trovato chi apriva loro la porta. Vuoi uscire fuori da droga, mafia, prostituzione? Bussa alla porta di chi può aiutarti. Ne esci fuori se assumi un metodo con amore e per amore. Per questo ho la certezza interiore che i giovani ce la possono fare, ma bisogna sapere dire dei ‘no’ secchi. Qualcuno deve insegnare ai giovani a dire ‘no’”. <br>
Luigi Crimella