Due verbi e un dito, l’indice, alzato. Ultimo Angelus pubblico da Papa, per Benedetto XVI. Chiamare, chiedere, i due verbi ai quali unisce il gesto del dito alzato proprio per evidenziarne importanza e decisione. In questa seconda domenica di Quaresima, il tema che la liturgia propone è il racconto della Trasfigurazione sul monte Tabor. Così se la prima domenica di Quaresima ci parla delle prove nel deserto, le tre tentazioni, ciò che dobbiamo lasciare, in un certo senso; la seconda domenica, invece, ci mostra ciò che dobbiamo accogliere, vedere. E quel salire il monte, faticosa prova, altro non è che itinerario necessario nel nostro cammino verso Gerusalemme, verso la Pasqua.
Così Benedetto XVI nel suo Angelus dopo averci ricordato, domenica scorsa, che nei momenti decisivi della vita, “ma, a ben vedere, in ogni momento, siamo di fronte a un bivio: vogliamo seguire l’io o Dio? L’interesse individuale oppure il vero bene, ciò che realmente è bene”; e averci detto che non si deve strumentalizzare Dio per i propri interessi, cedendo alle lusinghe del tentatore e dando più importanza al successo o ai beni materiali, oggi mette in primo piano il primato della preghiera: Gesù, ci ricorda Luca nel suo Vangelo, “si trasfigurò mentre pregava: la sua è profonda di rapporto con il Padre durante una sorta di ritiro spirituale che Gesù vive su un alto monte in compagnia di Pietro, Giacomo e Giovanni”.
Ed è qui che possiamo leggere, con altre parole, la decisione che Benedetto XVI ha voluto prendere, e che ha annunciato lunedì 11 febbraio. Così la preghiera domenicale si trasforma in un momento di grande vicinanza e di affetto dei fedeli per il Papa che si avvia a concludere anzi tempo il suo ministero. Non è un Papa che lascia, che si arrende, ma che confida in un’altra strada per completare la sua missione. E se affacciandosi alla loggia centrale della basilica vaticana di San Pietro il 19 aprile del 2005 aveva detto di essere un “semplice, umile lavoratore nella vigna del Signore”, oggi dice che quel lavoratore mette al primo posto nel suo cammino di pastore, il “primato della preghiera, senza la quale tutto l’impegno dell’apostolato e della carità si riduce ad attivismo”.
Nella Quaresima, afferma ancora Benedetto XVI, “impariamo a dare il giusto tempo alla preghiera, personale e comunitaria, che dà respiro alla nostra vita spirituale. Inoltre, la preghiera non è un isolarsi dal mondo e dalle sue contraddizioni, come sul Tabor avrebbe voluto fare Pietro, ma l’orazione riconduce al cammino, all’azione”.
Interessante sottolineatura. Pietro, che ha seguito Gesù assieme a Giacomo e Giovanni, vorrebbe fermarsi. In fondo non sarebbe male costruire tre capanne sul monte, per restare con il Signore, che ha visto con la veste luminosa accanto a Mosè e a Elia. Sarebbe bello poterlo avere sotto gli occhi, sempre. Ma il monte Tabor non è la meta ultima, come il monte Nebo non lo è stato per il popolo che Mosè ha guidato fino alla terra promessa. C’è un altro monte per la nuova alleanza, per quel cammino che porta alla città santa, alla Pasqua e che qui, al Tabor, ha un’anticipazione: la trasfigurazione del Signore, appunto.
Così papa Benedetto può dire che “l’esistenza cristiana consiste in un continuo salire il monte dell’incontro con Dio, per poi ridiscendere portando l’amore e la forza che ne derivano, in modo da servire i nostri fratelli e sorelle con lo stesso amore di Dio”.
Ed è qui che il Papa offre, ancora una volta, una spiegazione della scelta compiuta di rinunciare al pontificato. È proprio in questa parola che, dice all’angelus, avverte rivolta in modo particolare alla sua persona, in questo momento della sua vita. La gente, i fedeli giunti numerosi in piazza san Pietro colgono subito il pensiero del Papa e lo accompagnano con applausi, intensi, calorosi.
“Il Signore mi chiama a salire sul monte, a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione”. Ecco il primo verbo: chiamare; il Signore mi chiama. Riporta subito alla memoria quel “seguimi” pronunciato otto volte dall’allora cardinale Joseph Ratzinger, al funerale di papa Wojtyla. È un verbo di obbedienza come il secondo che pronuncia poco dopo, quando riflette sul fatto che salire sul monte “non abbandonare la Chiesa, anzi, se Dio mi chiede questo è proprio perché io possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui ho cercato di farlo fino ad ora, ma in un modo più adatto alla mia età e alle mie forze”.
Ecco che si completa il quadro. Non lascia, non abbandona, dunque, ma continua in altro modo e con altre forze, più adeguate alla sua età. E torna l’immagine del Tabor: il monte è una tappa e i discepoli sono chiamati ad ascoltare la parola di Dio e a seguire il Signore che scende dal monte, forse con la stessa fatica spesa per salirvi; o forse con una fatica maggiore perché la strada porta a Gerusalemme, a un altro monte, il Calvario.
Fabio Zavattaro