“Il mio sogno più grande è partecipare al mondiale. Il secondo è vincerlo”
Quasi ogni bimbo, in ogni angolo del globo, almeno una volta avrà pronunciato ad alta voce questo desiderio: Diego Armando Maradona, eroe tragico sempre al limite tra le stelle e le stalle di una vita sulla cresta dell’eccesso, nel bene e nel male, le pronunciò da bimbo, davanti alla telecamera di un inviato intenzionato a capire perché quel ragazzino attirasse centinaia di persone da ogni quartiere per vederlo giocare al calcio. Ma a differenza di quasi tutti i coetanei, realizzò entrambi i sogni, alla grande.
Facendo sì che il nome Argentina, in tutto al pianeta, diventasse sinonimo di grande calcio… anzi, di Maradona. Perché «tanti giocano a pallone, ma pochi a calcio», dirà una ventina d’anni dopo il commissario della nazionale italiana, Arrigo Sacchi: Diego Armando Maradona non giocava a pallone e, probabilmente, non giocava neanche semplicemente a calcio. Forse Maradona era, il calcio. Almeno, quello conosciuto fino al suo arrivo.
Da Villa Fiorito al tetto del mondo
Un talento innato, mancino purissimo, come dimostrano quei 378 gol realizzati in 705 partite da professionista in giro per il mondo, dei quali solo 6 con il piede destro. Un bimbo in grado di incantare sui sassi, nel fango, sull’asfalto e con qualsiasi clima, nonché di palleggiare con bottiglie o arance fin dalla prima infanzia, senza chiedersi come e perché.Nato in una delle più degradate periferie del mondo, sobborgo di Buenos Aires, per Maradona a 10 anni arrivano le lusinghe dell’Argentinos Junior: il ragazzino ha un talento che fa gridare al miracolo, per cui in società nessuno basa a spese per procurargli visite mediche, scarpe, abbigliamento e ricostituenti, visto il fisico gracile dovuto alla malnutrizione iniziale. Già a 16 anni debutta con la nazionale, mentre a 19 Diego aveva ha già realizzato 100 gol. Ma è inevitabile che il ragazzo, con l’economia argentina già in declino, a 20 anni venga già “prelevato” dal ricco Barcellona.
Eccessivamente Diego Armando Maradona
Si muove persino Videla “per il Paese”, per cercare di bloccarlo almeno fino ai Mondiali spagnoli dell’82, una gioia per l’Italia, un disastro per l’Argentina. Ma di fronte a 7 milioni di dollari investiti dai catalani, cifra gigantesca all’epoca, nessuno può opporsi più di tanto all’espatrio del “diez”, il 10 già per eccellenza. A fronte di risultati non eccellenti in Catalogna, da giocatore inizia subito a mantenere un entourage composto da una ventina di persone tra amici, o presunti tali, parenti e cuochi: la vita sregolata notturna e l’uso di stupefacenti peggiorano un quadro che preoccupa il Barcellona. A chiudere negativamente e in modo emblematico l’avventura nella Liga spagnola è la finale di Coppa del re dell’84 contro il Bilbao: un avversario lo apostrofò “sporco argentino”, scatenando una rissa furiosa in campo.
“La mano de Dios”
È l’ultimo atto che convince il Barça a cedere alle lusinghe del Napoli di Ferlaino. Nel frattempo Jorge Cyterszpiler, amico procuratore, dilapida la fortuna economica di Diego tra investimenti errati e spese pazze concesse all’assistito, sempre tanto generoso d’animo, quanto impulsivo, ingenuo e talvolta scriteriato. Ambito da sponsor e pubblicitari, Maradona si muove comunque tra gossip e mugugni di amanti e società sul piano disciplinare: alla vigilia dei Mondiali di Messico ’86, la stampa sportiva critica il Barça come anche il ct argentino perché secondo loro il ragazzo “godrebbe di troppa fiducia”.
Diego risponde con un Mondiale diventato memorabile, non solo per la vittoria finale. La partita dei quarti di finale contro l’Inghilterra, in particolare, è un crocevia che scolpisce nella storia del calcio e non solo l’ascesa di Maradona, vista l’inevitabile riferimento alla guerra delle “Malvinas”, uno strappo degli inglesi che gli argentini non hanno mai digerito: al 51° “el diez” rompe l’equilibrio con il celebre gol di mano che attribuirà a Dio a fine gara («è stata la mano di Dio»), poi finirà i rivali con una cavalcata da centrocampo con la quale entrerà letteralmente in porta con il pallone dopo avere seminato mezza Inghilterra. È un gol che ha fatto epoca, ribattezzato come il più bello di sempre dalla Fifa, e che gli argentini benediranno come una sorta di risposta divina al torto subito.
Napoli e la leggenda del “D10S”
Vinto il Mondiale dell’86 e celebrato in patria come un idolo popolare per talento e carisma, Diego trova a Napoli la stessa passionale, viscerale e talvolta smodata venerazione dei suoi compatrioti, soprattutto dopo avere raggiunto un clamoroso scudetto nell’87, portando al Sud una vittoria che in Italia era storico appannaggio delle “nordiste” Juventus, Milan e Inter.
Un’altra impresa reputata impossibile: una sorta di rivalsa dei deboli contro i grandi per l’uomo delle rivincite, visto dai tifosi di tutto il mondo come una sorta di “Zorro” in grado di ristabilire equità tra i ricchi signori del calcio e le squadre di periferia. Perché «Diego era capace di cose che nessuno avrebbe potuto eguagliare. Le cose che io potrei fare con un pallone, lui potrebbe farle con un’arancia», dirà Michel Platini in quel periodo, mentre «Maradò, Maradò, seminò allegria nel popolo, annaffiò di gloria questa terra», canterà il noto connazionale Rodrigo Bueno, ispirandosi a questa aurea leggendaria e dedicandogli una stupenda composizione musicale. Maradona trascinò il Napoli anche alla vittoria dello scudetto del 1990, aggiungendo una Coppa Uefa, una Coppa Italia e una Supercoppa italiana. Ai Mondiali dello stesso 1990, portò la sua Argentina in finale contro la Germania dopo aver battuto in semifinale poprio i padroni di casa dell’Italia, in un San Paolo di Napoli, ironia della sorte, diviso fra tifosi degli Azzurri (Italia) e… tifosi degli azzurri (Napoli) di Maradona.
Cosa resta dell’uomo…?
Fuggito dall’Italia dopo l’ennesima positività alla cocaina, nel ‘92 tornò a giocare nelle file del Siviglia in Spagna, per poi fare ritorno in Argentina nelle file del nel Newell’s Old Boys e infine ancora del Boca Junior, dove tutto era iniziato e con cui ha giocato la sua ultima partita in Superclásico, il 25 ottobre 1997. Nel 1994, suo ultimo Mondiale, era tornato clamorosamente in forma, trascinando ancora l’Argentina, quando venne fermato per una positività al doping. Gli anni successivi al ritiro di Maradona, al di là di alcune esperienze in panchina poco felici, tra le quali quella con la stessa nazionale argentina ai Mondiali 2010 in Sudafrica, ne hanno accresciuto il volto oscuro dell’uomo sregolato fuori dal campo, finendo per portare molta dell’opinione pubblica a confondere insensatamente il talento sportivo inarrivabile del campione con le cadute morali dell’uomo. Segnato da eccessi di cibo, alcol, droga e mondanità, nonché da rapporti con alcuni camorristi, quindi noto per l’amicizia con Fidel Castro e i tentativi di recupero psico-fisico continui, Diego lascia una parabola di vita scolpita negli annali: unica e inimitabile, da scindere tra le vette dell’uomo del campo e le cadute dell’uomo del fuori campo. Ciò che resta della vita del “diez”… o per alcuni, del “d10s”.
Mario Agostino