Il 10 febbraio è la data in cui – dal 2004 – il nostro Paese cerca di porre rimedio a una colpevole dimenticanza. L’avere volontariamente lasciato che la patina del tempo troppo a lungo si posasse sulla tragedia di migliaia d’infoibati e sul dramma dell’Esodo degli italiani, alla fine della seconda guerra mondiale, dalle terre dell’Istria e dalla Dalmazia. E così l’imposizione di dimenticare ha finito per gettare ancora più sale sulle ferite di chi aveva subito sulla propria pelle e nel profondo della propria anima la violenza di quei giorni.
Sono trascorsi ormai quasi 70 anni da allora.
Proprio l’apparente lontananza temporale alimenta ancor di più l’obbligo del fare memoria. Non per pretendere rivendicazioni astoriche e senza senso ma perché quanto avvenuto non abbia a ripetersi: né qui né altrove.
Il mondo da allora è mutato radicalmente. La globalizzazione ha fatto della distanza geografica un concetto relativo: il lontano è, anche fisicamente, sempre più vicino ma questo spesso rischia d’impedire allo sguardo di fare attenzione a quello che abbiamo sulla porta di casa.
Dal primo luglio anche la Croazia entrerà a far parte dell’Unione Europea, secondo fra gli Stati dell’ex-Yugoslavia dopo la Slovenia. E così l’Ue penetrerà ancor più profondamente in quei Balcani che hanno rappresentato la miccia capace di far deflagrare alcuni fra i conflitti più sanguinosi nell’ultimo secolo del Vecchio Continente. Un ulteriore passo sulla strada della pacificazione per un’area alla ricerca di un proprio equilibrio e in cui covano sotto la cenere (si pensi alla questione del Kosovo) mai sopite tensioni.
Raccontare il dramma delle foibe è soffermarsi sulla violenza dell’uomo contro il proprio fratello. Una violenza che ha trovato nelle ideologie la propria scusa, non la propria causa. Perché a gettare uomini e donne in quel vuoto senza fondo che penetra brutale nell’anima della terra carsica sono stati altri uomini: ciascuno mosso dal disprezzo per la vita del prossimo e dalla voglia di vendetta in una catena che l’odio continuava a nutrire. Nelle foibe non c’era distinzione fra i corpi degli italiani, degli sloveni, dei croati, dei tedeschi; così come fra quelli dei contadini o degli insegnanti, dei commercianti o degli operai o dei religiosi: tutti uniti in un’unica massa, in un unico – tragico – abbraccio. A ricordare che di essi nessuno può appropriarsi perché appartengono, per sempre, alla storia dell’umanità…
E vittima non era solo chi finiva inghiottito nel buio senza tempo ma anche chi rimaneva, non sapendo (ancora oggi) dove portare un fiore da bagnare con le lacrime nel ricordo dei propri cari. Mogli che hanno atteso sino alla morte il ritorno dei propri mariti, figli che dei propri padri conservano solo qualche immagine ritagliata da fotografie sempre più ingiallite dal tempo.
La stessa ideologia ha ideato la pulizia etnica dell’esodo biblico di migliaia e migliaia di persone dall’Istria e dalla Dalmazia. Costrette da un giorno all’altro a lasciare le proprie case e i propri affetti, scacciate da quella terra che le aveva viste nascere e crescere. Partivano lasciandosi alle spalle la propria storia senza la certezza di come e dove avrebbero potuto costruire il proprio futuro.
Per chi comandava allora le Nazioni, i muri alzati sul confine, specie in questa parte d’Europa, avrebbero dovuto rappresentare una barriera invalicabile.
Ma l’intelligenza e la caparbietà degli uomini, da una parte e dall’altra di quei muri, hanno fatto sì che il confine riacquistasse il significato suo proprio di “cum-finis”: il luogo in cui gli estremi entrano in contatto. E così ognuno ha potuto continuare a nutrirsi della storia e della cultura dell’altro, in un apporto di scambio reciproco che ha creato un “unicum” europeo. Qui sono nati percorsi di riconciliazione, di dialogo e di cooperazione, assieme al tentativo da parte degli storici di scrivere insieme una storia condivisa di quei giorni, senza pregiudizi e preconcetti: non per giustificare o cercare le responsabilità di allora, ma per capire. Affinché ciò che è stato non avvenga di nuovo.
È il doveroso impegno che il nostro Paese si è assunto verso le sue nuove generazioni chiamate a essere protagoniste di un futuro di pace.
Mauro Ungaro
(direttore “Voce Isontina”, Gorizia)