Cosimo Cristina fu un giovane giornalista che si dedicò al giornalismo d’inchiesta parlando della mafia siciliana. Questo tema era molto scomodo negli anni ’50: molti la ritenevano un’“invenzione” dei comunisti. Nonostante ciò, Cristina continuò a parlarne finché il suo corpo non fu rinvenuto sui binari della stazione. Per anni si parlò di suicidio, ma per molti questa fu una scusa per nascondere la verità. Ovvero che Cosimo Cristina fu ucciso perché il suo lavoro da giornalista era troppo scomodo per la mafia.
Cosimo Cristina / Il D’Artagnan che investigava sulla mafia
Cosimo Cristina nacque a Termini Imerese l’11 agosto 1935. Era un giovane molto curioso e interessato ai cambiamenti della sua zona. Questo suo interesse lo fece avvicinare al mondo del giornalismo: infatti cominciò a lavorare ad appena vent’anni. Per via dei baffetti sottili, il folto pizzetto, e il suo modo di vestire sempre elegante, molti lo chiamavano D’Artagnan. Tra il 1955 e il 1959 collaborò con varie testate giornalistiche come L’Ora di Palermo, Il Giorno, l’agenzia Ansa, il Corriere della Sera, Il Messaggero e Il Gazzettino. Cristina era spesso inquieto e insoddisfatto: il suo interesse era quello di parlare della mafia locale e questi giornali lo bloccavano.
Decise così di fondare nel ’59 il settimanale Prospettive Siciliane con l’amico e collega Giovanni Capuzzo, che ne divenne il direttore. Con questo settimanale cominciò a pubblicare pezzi riguardanti gli affari che la mafia siciliana stava realizzando nelle Madonie, tentando di tracciare i legami con le forze politiche locali. I titoli che assegnava a questi pezzi erano molto diretti e scomodi, ad esempio: “La strada per la droga passa per Palermo”; “Agostino Tripi è stato ucciso dalla mafia?”. Le svariate minacce e intimidazioni non lo fermarono. Continuò a cercare di far emergere la verità sui fatti di cronaca che avvenivano menzionando direttamente i nomi dei boss. Si firmava con le iniziali Co.Cri. e si definiva un “giornalista senza peli sulla lingua” perché onesto e non asservito a nessuno.
Cosimo Cristina / L’inchiesta sui frati di Mazzarino
Una delle inchieste su cui Cosimo Cristina lavorò con tanta passione fu quella riguardante i frati di Mazzarino. Cristina con particolare interesse seguì la pista di estorsioni e di attentati che avvennero a Mazzarino alla fine degli anni ’50. Al centro delle inchieste furono vari casi tra cui: l’uccisione del sacerdote Pasquale Culotta avvenuta a Cefalù nel 1955, l’omicidio del cavaliere Angelo Cannada e il tentato omicidio del vigile urbano Giovanni Stuppia. Quest’ultimo si era ribellato a una richiesta estorsiva e per questo gli hanno sparato due volte alle gambe mentre rincasava. Riuscì comunque a denunciare ai carabinieri, permettendo loro di arrestarli. Durante il processo accusarono anche l’ortolano del convento che fu successivamente ritrovato impiccato nella sua cella il giorno prima della sua testimonianza. Secondo la vedova, il suicidio fu inscenato dai complici per nascondere la verità sulle loro attività.
Il 26 febbraio del 1960, Cosimo pubblicò un articolo che si intitolava “Avvocato di Mazzarino, corrispondente di un noto giornale siciliano, è il capo della famigerata banda dei monaci“. Nell’articolo non menzionò mai il nome dell’avvocato coinvolto. Nonostante ciò, uno dei tre della zona che in quel periodo collaboravano con dei giornali, ritenne l’articolo diffamatorio. Si trattava dell’avvocato Alfonso Russo Cigna, collaboratore del “Giornale di Sicilia”. Querelò per diffamazione a mezzo stampa Cosimo Cristina il quale, dopo un breve processo, fu ritenuto colpevole e condannato alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione. Inoltre, dovette risarcire i danni morali col pagamento di due milioni di lire.
Cosimo Cristina/ Il “suicidio”
La mattina del 3 maggio 1960, Cosimo uscì di casa verso le 11 ben vestito e non ritornò più. Inizialmente la famiglia non si preoccupò, perché era capitato già altre volte che Cosimo tornasse tardi per le sue inchieste e l’indomani raccontasse i particolari del suo lavoro. Inoltre, aveva anche anticipato l’uscita di una “notizia bomba” sul giornale L’Ora di Palermo. Però egli non collaborava più da qualche mese con la testata e le recenti abitudini del giovane erano sconosciute. L’indomani cominciarono le ricerche che si conclusero il 5 maggio, due giorni dopo. Il guardalinee Bernardo Rizzo di Roccapalumba ritrovò il suo corpo alle 15.35 e diede la notizia via radio: “C’è il corpo di un uomo sui binari della galleria Fossola”. Per pura coincidenza, uno dei primi a vederne il cadavere era stato suo padre, impiegato delle Ferrovie.
Il suo corpo era disteso al centro dei binari nei pressi di Termini Imerese. Era posto in pancia in su, con i piedi rivolti verso Palermo e le spalle al suo paese natìo. Ritrovarono il portafoglio, un mazzo di chiavi e un portasigarette. In tasca una schedina del totocalcio e due biglietti: uno per la fidanzata, Enza Venturelli, l’altro per l’amico Giovanni Cappuzzo, con i quali si scusava per il gesto estremo. Nessun messaggio invece per i famigliari. Chiusero frettolosamente il caso come “suicidio”, e per questo gli negarono i funerali. Non si impegnarono neanche a fare l’autopsia perché tutti gli indizi indicavano la pista del suicidio.
Cosimo Cristina / La ricerca della verità
I parenti e i colleghi cercarono di far notare le incongruenze e solamente sei anni dopo si riuscì a riaprire il caso. Il 16 aprile 1966, infatti, istituirono il “Centro regionale di coordinamento per la polizia criminale”. Il centro aveva lo scopo di indagare sui delitti rimasti impuniti quegli anni. Il vice-questore di Palermo, Angelo Mangano, ne ottenne la direzione e riaprì le indagini sul caso Cristina. Ha più volte interrogato Capuzzo, che raccontò di essere stato avvicinato da Accursio Mendola, figlio adottivo del boss Emanuele Nobile. Mendola gli consigliò di abbandonare al suo destino Cosimo, pioché già condannato a morte dal “tribunale di mafia”. Mangano cercò di ricostruire le dinamiche dell’omicidio: secondo la sua ricostruzione, i colpevoli lo avrebbero tramortito con un colpo di spranga alla testa e solo successivamente gettato sui binari della galleria.
Il 12 luglio 1966 hanno riesumato il corpo di Cristina per l’autopsia. Tuttavia, le relazioni depositate dai periti Marco Stassi e Ideale Del Carpio, riconfermarono le ipotesi di suicidio. Nel 1999 Luciano Mirone, giornalista catanese, si interessò al rapporto di Mangano. Insieme al professore di Medicina legale dell’Università di Catania, Vincenzo Milana, cercò di mettere in luce le contraddizioni del referto autoptico. Inoltre, il giornalista organizzò una raccolta firme con la quale chiedeva alla Procura di Palermo di riaprire l’inchiesta. Nonostante l’impegno e la ricca documentazione prodotta, non li hanno mai ascoltati e ad oggi, quel valente giornalista, risulta ancora, paradossalmente, “suicidato”.
Milena Landriscina