Migranti / Le toccanti storie di un medico impegnato al CARA di Mineo

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migranti Cara Mineo

Il CARA di Mineo è stato il Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo (da qui l’acronimo CARA) più grande d’Europa per numero di migranti ospitati. Purtroppo ormai chiuso. Moltissimi migranti vi sono passati e, grazie a Serena Leotta, medico di Giarre (CT) all’epoca impegnata come medico per conto della Croce Rossa, abbiamo potuto registrare tante toccanti storie di persone che ogni giorno arrivavano. Tutti affamati, in cerca di cibo, ma soprattutto di un po’ di amore. Per l’esattezza, è bene premettere come lo sbarco abbia solitamente una gestione “emergenziale” diretto dalla Prefettura. Mentre strutture come il Cara fossero gestite da un’Associazione temporanea d’impresa (ATI) aggiudicatarie di un bando del Ministero dell’interno. In questo caso, appunto, la Croce Rossa per quanto concerneva la gestione dell’ambulatorio sanitario in cui operava la dottoressa.

Migranti / Le storie dei migranti del Cara di Mineo 

La dottoressa Leotta era addetta a medicare e curare le ferite delle migliaia di migranti del Cara di Mineo. In primis ricorda come purtroppo, durante il viaggio, molti di loro avessero perso i documenti, in mare o nel deserto. Quindi venivano catalogati tramite impronte digitali e fotosegnalamento già al porto di arrivo, dopo lo sbarco. Poi identificati tramite un numero dopo i vari passaggi e le lunghe procedure di riconoscimento previste. Veniva dato loro un badge per segnalarne la presenza nel campo: su questo veniva scritto il nome, il cognome e il numero.

Anche se questa operazione era condotta per riconoscere ogni ospite, per le persone interessate era come essere private della propria sacrosanta identità. Ognuno di loro ovviamente aveva invece un nome e cognome che ne avrebbe dovuto riconoscere unicità e dignità. Come sospese, così. Ma durante le visite mediche, la dottoressa chiamava i migranti sempre per nome: sembra un dettaglio, ma essi la ringraziavano sempre per questo. Un riconoscimento che ridonava sprazzi di dignità. Racconta che la ringraziavano perché non li guardava dall’alto in basso con pregiudizio, perché non li trattava come un numero ma bensì come persone. “Non dobbiamo mai dare nulla per scontato: sono persone esattamente come noi che sono costretti a scappare da una situazione difficile” ricorda.

Migranti / Le storie dei Migranti e la fame

La dottoressa racconta che i migranti arrivavano al Cara dopo lunghissime procedure di controlli e soprattutto un viaggio durato diversi giorni se non settimane. Arrivavano in Sicilia in barconi in cui per giorni non mangiavano e non bevevano: era dunque già difficile arrivare vivi e sopravvivere alla forza del mare. Leotta ricorda proprio la fame negli occhi dei ragazzi. Racconta che, mentre questi aspettavano di fare la visita, la direzione aveva portato delle merendine per mangiare qualcosa prima dei pasti generali. La dottoressa stessa distribuiva talvolta le merendine ai ragazzi, che loro scalpitavano per prenderle anche se ce n’erano per tutti.

Migranti Cara Mineo

“Scalpitavano e alzavano le mani come per dire ‘dalla a me perché sto morendo di fame’. C’era però un ragazzino che dormiva e quella merendina spettava anche a lui: un ragazzo voleva rubargliela ma un suo compagno lo rimproverò e gli disse nella sua lingua che anche lui aveva fame proprio come loro. In questo modo si stemperò l’atmosfera e l’emozione per delle merendine. Erano tutti magrolini e fragili. Chiedevano aiuto e si vedeva nei loro occhi e nei loro gesti. Ma avevano sempre rispetto per gli altri”.

Migranti / Le storie delle donne del Cara di Mineo

Nel Cara di Mineo lavoravano molti volontari, dottori e psicologi che facevano di tutto per aiutare i migranti sia fisicamente ma anche psicologicamente. La dottoressa Leotta riferisce di una ragazza che appena arrivò al Cara sembrava completamente fuori di testa. Ma era sotto shock. Ad un certo punto si è avvicinata alla banchina del molo per buttarsi di nuovo a mare. La dottoressa non voleva capacitarsi del perché volesse commettere un gesto simile, dal momento che era arrivata in Sicilia sana e salva e le aspettava sicuramente un futuro migliore e una nuova vita. In seguito a varie domande, raccontò che preferiva morire. Questo perché durante la traversata dalla Libia, prima che venissero salvati dalla nave della guardia costiera, aveva visto morire annegati sui figlio e suo fratello. Così avrebbe forse preferito andarli a cercare anche se ben cosciente del loro tragico destino.

E probabilmente riunirsi a loro in un’altra vita. Ma la situazione successivamente si risolse. C’erano poi, racconta, tantissime persone con disturbi post traumatici perché erano sottoposte a torture di ogni sorta e avevano visto morire i loro cari, piccoli o grandi, sotto i loro occhi. Diverse donne poi non parlavano inglese ma solo somalo. Quindi la maggior parte di queste non riusciva a farsi capire dalla dottoressa nonostante vi fossero molti traduttori. La dottoressa ricorda di avere chiesto una volta un mediatore somalo: nell’attesa, una donna la guardò negli occhi, la abbracciò e scoppiò a piangere. Sicuramente un modo universale di implorare aiuto, di voler essere capita e ascoltata e di ricevere un po’ di affetto mancato. Quando arrivò il mediatore, questa donna raccontò di essere stata rinchiusa in una prigione e avere subito violenze sessuali di gruppo da parte delle “guardie”.

“Aiutiamoli a casa loro”: il motto più ipocrita di chi non ha mai aiutato

Molti sono capaci solo di proferire quest’espressione, semplificando concetti che ignorano, ben più grandi di loro. Ma cosa sanno di queste persone in arrivo e dei loro paesi? Quali scelte avevano, queste persone? Cosa si cela, dietro una scelta così rischiosa e radicale di cambiamento di vita e ambiente? Grazie anche a persone impegnate sul campo come la dottoressa Serena Leotta, qualche domanda può avere risposta. La Croce Rossa e la dottoressa Privitera aiutavano sul campo, subito e con umanità. Nonostante dubbi e domande. Agivano.

E i loro racconti fanno ancora riflettere su come non vi sia alcun merito nel nascere in un’Italia libera e in pace, rispetto a una Somalia che, anche per colpa del colonialismo italiano di inizio secolo, non ha visto quasi mai stabilità e pace negli ultimi decenni. Chi decide dove nascere? Chi decide chi può aspirare a fuggire dalla sofferenza e chi no? Ma soprattutto chi, davvero, è disposto a più fatti di aiuto e meno parole vuote?

Clara Privato e Mario Agostino