Un uomo e un credente intelligente, profondo e “soprattutto mite”. Un “politico mite”. Tino Bino ha vissuto una lunghissima e stretta amicizia con Mino Martinazzoli e ne descrive per il SIR il tratto privato, la personalità, la formazione e le letture, la fede. Bino, anch’egli bresciano, studioso, docente all’Università Cattolica, a sua volta impegnato politicamente, è fra l’altro autore della prefazione a uno degli ultimi libri di Martinazzoli (Orzinuovi, 30 novembre 1931 – Brescia, 4 settembre 2011; deputato, senatore, più volte ministro, fu l’ultimo segretario della Democrazia cristiana e primo segretario del rinato Partito popolare italiano nel 1994; in seguito fu sindaco della Leonessa), intitolato “Elogio di Nicodemo”.
Professor Bino, si può essere “miti” in politica? “La mitezza è stata il tratto essenziale dell’esistenza di Martinazzoli, accentuatasi negli ultimi tempi. E il personaggio di Nicodemo in parte lo rappresentava. Essa si esprimeva nel modo di vivere, di pensare, di comportarsi di Mino. Il quale ha sempre dimostrato una certa distanza dal potere, che è un aspetto della politica. Anche negli anni di massimo impegno a Roma come a Brescia egli mostrava quasi un timore fisico per il potere. E questo forse è stato un suo limite”.
In che senso? “Per essere chiari: pur essendo un democristiano, Martinazzoli non ha mai dato vita a una sua corrente, a un suo gruppo o a una rivista di parte. Più chiaro ancora? Non ha mai fatto – ne sono certo – una telefonata per raccomandare qualcuno, non ha mai pagato una cena elettorale”.
Quali le doti personali che spiccavano in Martinazzoli? “Era un uomo di intelligenza acuta, dimostrata anzitutto nel suo essere, professionalmente, un finissimo penalista. Ma la sua vera natura, se posso dire, era quella del letterato”.
Un letterato prestato alla politica? “Un letterato politico. Si legga, in questo senso, il suo scritto intitolato Pretesti per una requisitoria manzoniana. Inoltre Mino era un oratore notevole. Il suo modo di utilizzare la parola e la scrittura resteranno nel tempo, forse più ancora degli incarichi sostenuti nell’agone politico. Si tratta di aspetti che andranno studiati e approfonditi”.
Dunque è possibile conciliare la cultura con la politica? “È una domanda che rimane aperta. Certamente Martinazzoli ci ha provato e, anche per questo, ha ricevuto attacchi pesanti nel corso della vita. Ricordo ad esempio che negli ultimi tempi era impressionato, atterrito dallo sbracamento, per così dire, della politica attuale. Inoltre si interrogava spesso su come i cattolici potessero tornare ad avere un peso nella cultura politica del Paese”.
Del Martinazzoli credente cosa ricorda? “Anzitutto una coerenza profonda tra la sua fede, mai ostentata, e la sua vita personale, professionale, politica. Aveva un grande rigore morale, appariva semplice e sobrio, composto. Il suo era un cattolicesimo esigente. Tra i suoi punti fermi citerei la passione per Manzoni e per Rosmini, quindi quella per don Primo Mazzolari, per il suo cristianesimo tutto d’un pezzo. Penso si possa definire Martinazzoli come un cattolico di ispirazione liberale. Credeva alla libertà, al pensiero forte, alla laicità della politica, all’impegno personale al servizio della convivenza civile. Era convinto che ai cristiani di oggi occorresse tornare a un impegno civile forte e motivato, dal quale sarebbe poi emerso un rinnovato impegno politico diretto. Alcune sue scelte, specie negli ultimi anni, non sono state condivise da tutte le persone che gli erano vicine, me compreso. Ma certo tendevano a cercare strade nuove per dare significato e rilevanza al cattolicesimo democratico nell’ambito politico”.
Qualche episodio da sottolineare? “Parlava talvolta di un incontro con papa Wojtyla. Dopo il momento ufficiale, diceva, Giovanni Paolo II gli aveva offerto un pranzo frugale in una cucina, in Vaticano. Era un ricordo particolarmente caro”.
E se dovesse indicare qualche altro punto di riferimento del Martinazzoli politico? “Ricordo personalmente una giornata con Aldo Moro, nella casetta che lo statista aveva preso per un’estate in montagna. Furono ore intense. Il pensiero di Moro lo affascinava, anche se poi le scelte politiche non furono sempre le stesse. Ma si può considerare Mino come uno dei più fini esegeti del pensiero moroteo”.
A CURA DI GIANNI BORSA (SIR)