l leader mondiali, a cominciare da Papa Francesco, hanno firmato una dichiarazione congiunta contro un fenomeno dalle dimensioni spaventose: 36 milioni di persone nel mondo, vittime di sfruttamento sessuale, lavoro forzato, lavoro minorile, vendita di organi, tratta di esseri umani. E solo cinque anni di tempo. Ma come si dice in America Latina, “caminando se abre camino”.
Tutte le religioni unite per sradicare la schiavitù moderna entro il 2020. Una sfida storica, ambiziosa, che ha visto Papa Francesco accogliere in Vaticano, nella Casina Pio IV, sede della Pontificia Accademia delle Scienze, leader anglicani, ortodossi, buddisti, indù, ebrei e musulmani per firmare una dichiarazione congiunta contro un fenomeno dalle dimensioni spaventose: quasi 36 milioni di persone nel mondo (secondo l’Indice globale sulla schiavitù del 2014 della Walk free foundation) vittime di sfruttamento sessuale, lavoro forzato, lavoro minorile, vendita di organi, tratta di esseri umani.
Una iniziativa promossa dall’organizzazione Global Freedom Network in occasione della Giornata internazionale per l’abolizione della schiavitù che si è celebrata il 2 dicembre, e che ha visto la firma del Patriarca ortodosso ecumenico Bartolomeo I, dell’arcivescovo di Canterbury Justin Welby, dei rabbini Abraham Skorka e David Rosen, delle autorità islamiche. C’era perfino l’indiana Amma, che ha il suo ashram in Kerala, famosa in tutto il mondo perché riempie gli stadi solamente abbracciando le persone e comunicando loro pace e amore.
Papa Francesco, che non è nuovo a questi temi perché ha conosciuto in prima persona a Buenos Aires tante vittime del lavoro schiavo e della prostituzione forzata, ha definito queste forme di “moderna schiavitù” un “delitto aberrante” e un “crimine di lesa umanità”.
Ed è veramente la prima volta che i leader delle principali religioni si uniscono per uno sforzo comune contro la schiavitù. Un impegno che dovrà ispirare l’azione sia spirituale sia pratica di tutte le confessioni, a tutto campo, in ogni Paese del mondo. Nessuno è escluso, anche se in cima alla infelice classifica c’è l’India, con oltre 14,2 milioni di persone stimate in schiavitù, seguita dalla Cina, con 3,2 milioni e dal Pakistan con 2 milioni.
Dietro questi numeri approssimativi per difetto, visto che rientrano nell’economia sommersa gestita dalla criminalità e dalle mafie globalizzate, ci sono i volti dei bambini e dei poveri – la maggior parte sono cristiani – che lavorano nelle fabbriche di mattoni del Pakistan, resi schiavi perché costretti a indebitarsi con i datori di lavoro per pagare i costi esosi di un matrimonio o di un funerale. Ci sono le storie tristissime delle ragazze cambogiane, thailandesi, filippine, brasiliane, vendute da famiglie poverissime per pochi soldi a trafficanti senza scrupoli per farle prostituire in squallidi bordelli. E i drammi indicibili dei profughi eritrei, sudanesi, etiopi, somali, rapiti dalle bande dei predoni nel Sinai o lungo i viaggi della speranza verso l’Europa, per chiedere un riscatto ai familiari. Torturati e uccisi per il traffico di organi. Ci sono le “maquilas” in Argentina, in Messico e in tanti altri Paesi dell’America Latina, le fabbriche dove vengono confezionati i capi firmati destinati ai benestanti occidentali mentre i lavoratori sono costretti a vivere e lavorare in condizioni disumane. Ci sono le ragazze dell’Est e le nigeriane che vediamo sulle nostre strade, indotte alla prostituzione con l’inganno e schiavizzate.
Il compito dei governi è immane perché si ha a che fare con un indotto criminale che “fattura” miliardi e miliardi di dollari, ed è un impegno che si aggiunge agli altri Obiettivi del millennio proclamati ma ancora non raggiunti: sradicare la fame nel mondo, l’analfabetismo, la povertà, la mancanza di accesso all’acqua, ai servizi sanitari. La lista delle utopie da realizzare è, come sempre, lunghissima.
Resta il fatto che, con questo gesto storico, le religioni dimostrano di saper camminare insieme per indicare una strada anche ai governi. Per l’opinione pubblica mondiale questo atto ha un valore altamente simbolico, morale ed educativo. Non solo si impegneranno ancora di più con ciò che già fanno nelle quotidiane opere di solidarietà – pensiamo solo al mondo cattolico e alle suore che aiutano le ragazze a lasciare la strada -, ma si assumono la responsabilità di una sfida che sembra impossibile, perfino con una data molto ravvicinata: entro il 2020. Cinque anni, manca pochissimo. C’è tantissimo lavoro da fare. “Caminando se abre camino”, si dice in America Latina. L’esempio è stato dato.
Patrizia Caiffa