Michele Brignone, segretario scientifico della Fondazione Internazionale Oasis: “Il tentativo di riprendersi una centralità geopolitica nell’area esiste ma nell’immediato c’è un problema più urgente: è circondato dallo Stato Islamico radicato nel nord del Sinai e ora in Libia. Ma l’Egitto è l’unico Paese arabo che ha un esercito capace di fare fronte a questa minaccia”.
“Siamo davanti a una forza che non guarda in faccia a nessuno. Qualsiasi gruppo etnico, religioso, umano viene inserito dall’Is, Stato Islamico, tra i nemici dell’Islam divenendo una vittima designata. La risposta alla morte dei 21 egiziani da parte del presidente Abd al-Fattah al-Sisi è stata pronta ed energica”. Così Michele Brignone, segretario scientifico della Fondazione Internazionale Oasis, esperto di pensiero politico arabo-islamico, commenta la morte dei 21 egiziani copti sgozzati in Libia dall’Is e i bombardamenti voluti dall’Egitto come risposta nel Paese libico.
Oltre la ritorsione, quale messaggio contiene la reazione dell’Egitto?
“Lo Stato egiziano con al-Sisi, che oggi si è recato in cattedrale a portare le condoglianze al patriarca copto ortodosso Tawadros, è dalla parte dei copti; una svolta per l’Egitto. I copti sono cittadini a pieno titolo, che godono degli stessi diritti dei musulmani, da difendere in quanto tali. In passato esisteva una difesa nominale dei copti la cui presenza veniva strumentalizzata dallo Stato anche per fomentare divisioni settarie e poi porsi come unico arbitro capace di risolverle”.
Una guerra contro l’Is potrebbe aiutare il Paese a riprendersi quel ruolo di guida del mondo arabo-islamico che ha sempre avuto nella storia?
“Ci sono alcune analogie con il passato. Penso all’approvazione da parte di al-Sisi del progetto di allargamento del Canale di Suez, mega opera pubblica che dovrebbe rilanciare l’economia del Paese e che ricorda le grandi iniziative di Nasser. Il tentativo di riprendersi una centralità geopolitica nell’area esiste ma nell’immediato c’è un problema più urgente: è circondato dallo Stato Islamico radicato nel nord del Sinai e ora in Libia. Ma l’Egitto è l’unico Paese arabo che ha un esercito capace di fare fronte a questa minaccia”.
Quattro anni fa piazza Tahrir: che resta di quei giorni? L’impressione è di assistere alla nascita di un nuovo regime autoritario. Le vicende regionali, Is in testa, sembrano offrire al Paese poca scelta: o i militari (al-Sisi) o il fondamentalismo. È così?
“Siamo di fronte a un nuovo regime autoritario che molti paventavano durante la transizione egiziana. Nonostante la stretta autoritaria non penso che questa fase segni la fine della Primavera araba. Ciò che è successo nel 2011, con la caduta di Mubarak e nel 2013 con la cacciata di Morsi segna una svolta nella storia egiziana che avrà effetti di cambiamento politico e sociale anche in altri Paesi arabi. Gli egiziani non vogliono sopportare più regimi come quello di Mubarak”.
La restaurazione basata su “sicurezza e stabilità” porta risultati anche in economia?
“La situazione è perlomeno stabilizzata, visto anche l’ultimo report del Fondo monetario che parla di stime di crescita del 4% nel 2015-2016. Nonostante le opere in cantiere l’Egitto resta un Paese vulnerabile e fragile dal punto di vista economico perché deve mantenere un’amministrazione pubblica elefantiaca e inefficiente. Smettere di mantenerla significherebbe provocare nuove tensioni sociali di cui non si sente bisogno. L’Egitto poi deve fare fronte a enormi spese militari. Nel Sinai sta in guerra con l’Is. La visita di Putin al Cairo si inquadra anche in questo contesto”.
A inizio anno al-Sisi ha auspicato “una rivoluzione religiosa” nell’Islam, riconoscendo che il pensiero islamico ha un problema con la violenza non più rinviabile…
“Le sue parole hanno provocato un positivo dibattito pubblico importante sull’Islam attuale e sulla necessità di riforma. Nell’immediato le parole di al-Sisi produrranno un maggiore controllo da parte della politica dello spazio religioso. Il ministero degli Affari religiosi già adesso dirama ogni settimana, in vista del venerdì di preghiera, una traccia di sermone cui gli imam devono attenersi. È evidente la politicizzazione dei sermoni. La settimana scorsa si parlava della missione dell’Egitto nel mondo arabo”.
È il metodo giusto per controllare imam fondamentalisti?
“La decisione risale a prima dell’elezione presidenziale di al-Sisi, emanata dal governo del presidente ad interim Adly Mansour (2013), con l’obiettivo di liberare le moschee dalla predicazione dei Fratelli Musulmani e degli imam loro legati. Predicazione che era un’evidente istigazione all’odio. Non è certo questo il metodo di riformare l’Islam. Il controllo autoritario dell’Islam da parte dello Stato, e la monopolizzazione politica del discorso religioso non può produrre altro che contestazione. Più le moschee sono controllate dallo Stato meno autorevoli sono le autorità religiose per cui la gente va a cercare altrove dei riferimenti e delle guide”.
Come vivono i cristiani nell’Egitto di oggi?
“Mi sembra che sia una delle note positive di questa fase. A Natale al-Sisi si è recato in cattedrale per gli auguri ed è stata la prima volta di un presidente egiziano. Si è sbloccata l’annosa questione della costruzione delle chiese, ne stanno erigendo tre, dopo anni di stop. Il regime vuole ampliare lo spazio dei diritti effettivi dei copti”.
A marzo e aprile l’Egitto andrà al voto. Quale Paese potrebbe uscire dalle urne?
“Non vedremo grossi cambiamenti. È stata varata una legge elettorale che penalizza i partiti a vantaggio di personalità indipendenti legate al regime attuale. Al momento sia i maggiori partiti laici che quelli islamisti hanno detto che boicotteranno il voto. Una situazione che non fa comodo al presidente al-Sisi, al quale una legittimazione democratica non avrebbe fatto male”.
Daniele Rocchi