Da circa un mese il Venezuela è tornato sotto i riflettori della stampa e dell’opinione pubblica mondiale. Benché l’emergenza economica del Paese infatti duri ormai da alcuni anni, la sua crisi istituzionale è esplosa lo scorso 23 gennaio, ovvero da quando il presidente dell’Assemblea nazionale di Caracas, Juan Guaidó, si è “autoproclamato” presidente pro tempore della repubblica. La reazione del presidente “legittimo” in carica, Nicolás Maduro, non si è fatta attendere: egli ha subito puntato il dito contro gli Stati Uniti e le altre potenze straniere ostili, accusandole di aver orchestrato l’azione sovversiva. Per fortuna, tuttavia, fino ad oggi le violenze tra le due fazioni sono state limitate, e nell’immediato non sembrerebbe esserci la prospettiva di una guerra civile.
Allora perché è importante parlarne? Perché il Venezuela non è un Paese qualsiasi del Sudamerica. È tra quelli con il maggior numero di emigrati italiani (la nostra comunità si aggira intorno alle 150mila persone) ed ha un’importanza strategica di primo livello per le risorse energetiche e minerarie di cui dispone. Proprio per quest’ultimo motivo, peraltro, vi è una certa attenzione da parte di tutti i principali attori internazionali. Molti Stati del mondo, in particolare nell’emisfero occidentale, si sono affrettati a riconoscere la legittimità di Guaidó, mentre diversi altri hanno deciso di confermare espressamente il proprio appoggio a Maduro.
Non è questa la sede adatta per esaminare i fondamenti giuridici delle ambizioni presidenziali di Guaidó. Basti sapere che la questione è molto più sfumata di quanto sembri (motivo per cui abbiamo usato le virgolette, all’inizio dell’articolo, parlando di “autoproclamazione” di Guaidó e di “legittimità” di Maduro). Forzature sono state commesse da entrambe le parti, e non solo in senso giuridico.
Di fronte ad una situazione così confusa, la comunità internazionale sarebbe chiamata non tanto a interpretare la costituzione venezuelana, bensì a prevenire un’escalation di tensioni. Limitandosi, possibilmente, ad impiegare i mezzi previsti dal diritto internazionale. Fino ad ora, però, le reazioni mondiali sembrerebbero ispirate ad altri “principi”. O meglio ai rapporti di forza e ai grandi schieramenti internazionali, mascherati solo superficialmente di ideologie. Gli Stati Uniti guidano il fronte del riconoscimento diplomatico di Guaidó, seguiti dalla maggioranza dei Paesi sudamericani (il “Gruppo di Lima”) e dalla quasi totalità dell’Unione Europea (Italia esclusa). Dall’altra parte della barricata, i principali sponsor di Maduro sono la Russia e la Cina, ma anche la Turchia, l’Iran, il Sudafrica, il Messico e Cuba.
Sul campo, la situazione non appare altrettanto equilibrata. Le pressioni sul regime di Maduro hanno sortito finora effetti limitati: la combinazione di sanzioni e aiuti provenienti dall’estero non ha modificato i rapporti di forza. Anzi, Maduro si è potuto permettere il lusso (più politico che economico) di respingere i camion di aiuti provenienti da Brasile e Colombia, senza (finora ) subirne conseguenze. L’ago della bilancia, come sempre, resta l’esercito. Che fino ad oggi resta in gran parte fedele a Maduro, nonostante Guaidó abbia promesso ai suoi vertici l’amnistia. Evidentemente non è abbastanza per convincere i generali (ma neanche i soldati di grado più basso) a disertare. I numeri sono indicativi: su 300mila effettivi, appena un centinaio di uomini hanno lasciato le fila dell’esercito.
Il vantaggio di Maduro è comunque limitato, nella portata e soprattutto nel tempo. Gli Stati che lo appoggiano non andranno oltre una certa soglia, e di certo non hanno i mezzi – né soprattutto la volontà – di intervenire militarmente. Inoltre la disastrosa situazione economica del Paese, acuita dall’embargo petrolifero, non consentirà al presidente di rimanere in sella fino al 2025, anno della formale scadenza del suo secondo mandato. Lo scenario più probabile vede un lento logoramento di Maduro. Si spera, senza una guerra.