Qual è la posizione dell’Italia a riguardo delle nuove Vie della Seta? Fino ad oggi, un vero dibattito pubblico sull’importanza commerciale e sull’utilità strategica delle Vie della Seta per il nostro Paese ha stentato a decollare. Persino in questi ultimi giorni, quando la ventilata adesione del governo italiano al progetto ha catalizzato parte dell’attenzione mediatica, principalmente a causa delle reazioni diplomatiche provenienti dagli Stati Uniti.
Le Vie della Seta e la posizione dell’Italia: la strategia cinese
In attesa della prossima visita del presidente cinese Xi Jinping in Italia, prevista per il 21-23 marzo, proviamo dunque qui, in poche righe, a illustrare il tema. Che, per l’ampiezza delle sue sfaccettature, riprenderemo sicuramente più avanti. Innanzitutto cerchiamo di spiegare cosa siano le Vie della Seta. In breve, si tratta della denominazione giornalistica più usata per identificare il progetto della BRI, la Belt and Road Initiative. E’ stata sviluppata dalla Repubblica Popolare Cinese per approfondire i propri rapporti commerciali con l’Asia Occidentale, l’Europa e l’Africa. La BRI si avvarrà in primo luogo di infrastrutture, ferroviarie o portuali, che faciliteranno i trasporti di merci dall’Estremo Oriente ai clienti di mezzo pianeta.
Dietro le ragioni puramente commerciali, naturalmente, se ne celano altre di natura strategica. Da una parte, la BRI permetterà alla Cina di controbilanciare i tentativi di “soffocamento” americani. Questi, finora l’hanno bloccata nella sua espansione verso Est tramite una cintura di Stati più o meno ostili a Pechino. Partendo dal Giappone, per arrivare alle Filippine, passando ovviamente per Taiwan. In Asia centrale e occidentale la strada infatti è più sgombra. Dall’altra parte, la BRI consentirà ai cinesi di rimodulare i propri rapporti bilaterali con una miriade di Paesi interessati, rinvigorendo in senso strategico l’ascesa globale dell’unico vero sfidante dell’egemonia statunitense.
Le Vie della Seta e la posizione dell’Italia: evitare un passo falso
A partire da questi presupposti si collocano i timori italiani, fondati a loro volta su due ordini di preoccupazioni. In primo luogo, l’Italia (giustamente) teme di restare imbrigliata nelle possibili conseguenze della rivalità sino-americana. Ne sarebbe risucchiata se non dovesse muoversi con prudenza nel gioco delle concessioni (verso la Cina) e delle corrispondenti rassicurazioni (verso gli USA). Le tensioni diplomatiche degli ultimi giorni testimoniano una relativa avventatezza del governo presieduto da Conte, il quale venerdì scorso ha dichiarato, al Festival di Limes di Genova, di voler seguire personalmente il dossier.
In secondo luogo, le preoccupazioni italiane riguardano più propriamente le intenzioni di Pechino, e le conseguenze che potrebbero derivare da un’eccessiva infiltrazione di prodotti o aziende cinesi nel nostro territorio. Per non parlare della contropartita relativa ai debiti che il nostro Paese potrebbe contrarre. Al di là delle giuste prudenze su entrambi i fronti, anzi mai troppo sopravvalutate, bisogna anche sottolineare le enormi opportunità potenzialmente ricavabili dall’adesione dell’Italia alla BRI.
Una questione di costi e benefici
Gli investimenti cinesi avrebbero come primo effetto quello di rafforzare grandemente le capacità e l’importanza strategica dei porti italiani. In particolare, si fa riferimento ai porti di Brindisi, Taranto, Venezia, Trieste e Genova. A ciò, naturalmente, si deve aggiungere un potenziamento delle infrastrutture stradali e ferroviarie di collegamento tra il Sud e il Nord del nostro Paese. Soprattutto sul versante adriatico, e un susseguente avvicinamento dei porti italiani alle consolidate realtà commerciali del Centro e Nord Europa. Senza contare le indubbie ricadute economiche sui territori circostanti.
Naturalmente, però, tali opportunità dovrebbero essere sfruttate al meglio, tramite una nuova strategia di collegamenti interni. Tanto per citare un esempio, l’arrivo dei cinesi a Trieste al momento favorirebbe quasi solo i Paesi mitteleuropei, ovvero il reale entroterra economico del capoluogo del Friuli Venezia Giulia. E prima ancora, si dovrebbe avere una classe politica conscia (e all’altezza) di tali sfide, che non si perda fra le trappole dei veti internazionali incrociati e al tempo stesso riconosca il valore e le ricadute di lungo periodo dell’iniziativa. Un orizzonte di decenni, non di mesi o anni.
Pietro Figuera