Mondo / Trump incendiario rischia di far esplodere la guerra con l’Iran

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Il generale iraniano Qassem Soleimani

Gli Usa attaccano (indirettamente) Teheran. Che adesso dovrà reagire.

La notte scorsa il generale Qassem Soleimani, a capo delle forze Quds (un corpo speciale delle Guardie Rivoluzionarie iraniane) è stato ucciso a Baghdad da un attacco statunitense mirato e ordinato dal presidente Donald Trump.

Soleimani non era un generale qualsiasi. Per gli analisti di Medio Oriente, la sua figura era considerata da parecchi anni come la più influente della regione, almeno sul piano militare e strategico. Di fatto, il comandante iraniano ha guidato la politica estera del suo Paese nei più delicati scenari di conflitto dell’area, in particolare in Iraq e Siria.

Con gli Stati Uniti, Soleimani aveva alternato fasi di aspro confronto – specie in seguito alle nuove sanzioni di Washington contro l’Iran – a momenti di cooperazione, come durante la lotta contro lo Stato Islamico. Ma nessun presidente americano aveva mai avuto il coraggio di premere il grilletto verso il potente generale. Le reazioni di Teheran sarebbero state inevitabili, e forse irreversibili.

Ci si chiede, in queste ore, se avrà dunque luogo lo scenario più temuto: la guerra tra Stati Uniti e Iran. Più volte minacciata e altrettante volte evitata per un soffio – l’ultima, pochi mesi fa, proprio per decisione di Trump, che si schierò contro il suo (ormai ex) consigliere per la Sicurezza nazionale Bolton e non diede l’ordine di abbattere un aereo dello Stato “nemico”.

Adesso Trump sembra aver scelto una linea dura, anzi durissima. Ufficialmente, come reazione all’assedio di pochi giorni fa all’ambasciata americana di Baghdad, la sede diplomatica Usa più grande e probabilmente più controllata al mondo. L’assalto, che aveva ricordato troppo da vicino quello avvenuto a Teheran quarant’anni fa, era stato ricondotto a manifestanti “filo-iraniani”, di cui Soleimani sarebbe stato il burattinaio. Nessuno, in realtà, sembra essersi chiesto le reali ragioni di un’insofferenza, da parte degli iracheni, che ormai da mesi è esplosa nelle piazze del Paese. Inevitabile, e forse persino giusto, che la rabbia sia stata canalizzata verso gli americani, responsabili della guerra di 17 anni fa e di una destabilizzazione dell’Iraq che sembra non avere più fine.

Tutto ciò non pare aver condizionato le decisioni delle alte sfere di Washington. Decise a portare avanti lo scontro con l’Iran fino alle sue massime conseguenze, e dunque a strumentalizzare qualsiasi episodio nei Paesi vicini per puntare il dito contro la Repubblica Islamica. Il raid di stanotte a prima vista sembrerebbe l’apice della cosiddetta strategia della massima pressione, un atteggiamento che – secondo i suoi ideatori – dovrebbe portare gli avversari a più miti consigli, a seguito di un isolamento militare e diplomatico condotto su tutti i fronti. Ma è difficile pensare che Trump (o meglio chi lo ha consigliato) non si sia reso conto delle possibili conseguenze di una tale azione, non più controllabili.

Soleimani, non ci si stancherà di sottolinearlo, era una figura troppo importante. Troppo anche per le più accondiscendenti colombe di Teheran, adesso costrette a rinnegare qualsiasi cooperazione con il “grande Satana”. Una riconciliazione, che pure sarebbe stata utile in chiave interna per entrambi i Paesi, oggi sembra davvero ardua. L’Iran rischierebbe seriamente il rovesciamento del suo governo, se non rispondesse a tono. Gli Usa dovranno prendersi le responsabilità delle proprie azioni e – a meno di inverosimili dietrofront – si faranno trascinare dalla reazione di Teheran. Con Trump che dovrà rinunciare alla “carta coreana”, ovvero all’immagine di rappacificatore di un conflitto latente in chiave elettorale interna. Non è da escludere, anzi, che le prossime elezioni americane del 2020 si svolgeranno in uno scenario di guerra.

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