Reso famoso da due personaggi spiazzanti come il vampiro e la mummia, ha interpretato 280 film, ma non ha mai ottenuto una nomination all’Oscar. Nel suo corpo british scorreva sangue italiano, quello della mamma, Estelle Marie Carandini, che apparteneva ad una delle più importanti famiglie nobili della penisola, quella dei marchesi di Sarzano.
Il vampiro se ne è andato a 93 anni. E con lui la mummia, Saruman e tanti altri personaggi che hanno fatto il cinema. Sir Christopher Lee ha lasciato le scene a 93 anni, e con lui si spezza uno degli ultimi legami con il mondo mitico dei Cinquanta, quando apparve Dracula il vampiro, diretto da Terence Fisher. Ma se nel 1958 l’uomo-pipistrello, signore della notte, iniziava a terrorizzare l’immaginario collettivo dell’intero pianeta, l’anno dopo sarebbe accaduto qualcosa di più spaventoso: lo stesso regista del primo (di una serie di dodici) Dracula farà dell’attore londinese una minaccia per tutti i sonni di grandi e piccini: Christopher Lee diventò, infatti, la mummia che ritornava in vita e che portava la sua minaccia, proprio come il non-morto della Transilvania, da Oriente in Occidente.
Se Dracula attingeva da una storia vera, quella di Vlad Dracul, quattrocentesco signore di Valacchia, trasfigurando il sangue dei nemici uccisi in quello di belle fanciulle sedotte dal fascino dell’oscuro, la mummia era qualcosa di spiazzante, di inquietante, perché veniva da una civiltà, quella egizia, a quel tempo non familiare, nota soprattutto per le sue cerimonie di conservazione dei corpi dei defunti.
Lee impersonò due tentativi su cui regna l’assoluto tabù: il ritorno dal regno dei morti. Ma Dracula era oltre la morte, perché la sua era una esistenza solitaria che passava attraverso – e sopra – i cicli umani. In questo la sua magrezza, il suo sguardo impietrante avevano qualcosa di umano, e favorirono una certa empatia verso colui che cercava l’altro da sé e per trovarlo doveva ucciderlo. Perché in questo modo gli avrebbe donato l’immortalità.
Dietro il vampiro c’era la solitudine, l’eterna ricerca della propria platonica metà. C’era qualcosa che parlava al nostro profondo e lo muoveva. Aveva a che fare con l’eternità dell’amore, che è “più forte della morte” come recita una fonte non sospetta, quella dell’Ecclesiaste.
La mummia no. Era il non-lecito, lo sprofondare dentro quello che i tedeschi chiamarono l’untergrund, vale a dire il sottosuolo, ciò che non deve affiorare perché ormai reso sacro, consegnato una volta per tutte al divino.
È lo stesso principio che non ha permesso a Orfeo di riportate l’amata Euridice alla luce del giorno. Neanche gli dèi possono cambiare il destino dell’uomo. La mummia rappresentava il monstrum in senso etimologico, qualcosa che colpisce la nostra attenzione in modo irrevocabile e implacabile, che si mostra senza poter essere elusa.
È il simbolo di tutto ciò che non accetta il destino, che sfida la legge divina inscritta nella natura. Ma lui, questo volto emaciato e gelido, che sembrava l’essenza di certo spirito british, aveva sangue italiano: la mamma, Estelle Marie Carandini, apparteneva ad una delle più importanti famiglie nobili della penisola, quella dei marchesi di Sarzano. Non è un caso che il paese di Casina, in provincia di Reggio Emilia, dove avevano vissuto i suoi avi, gli abbia conferito la cittadinanza onoraria nel 2004.
Duecentottanta film girati (il primo nel 1948), una maschera diventata un’icona, una presenza imponente (un metro e novantacinque), lo hanno consegnato alla storia. Lee paradossalmente non è stato mai nominato per l’Oscar. Chissà che dispiacere, penserete voi. No. Perché se avesse avuto una nomination, sarebbe stato probabilmente per Dracula. E lui detestava quella maschera che lo aveva imprigionato, tanto da rifiutare, lui in genere gentilissimo, di mettere la sua firma su foto in cui appariva in quel ruolo.
Si sentiva un attore in grado di essere altro che il terribile vampiro. Ma quel vampiro gli ha concesso di diventare una delle più inquietanti presenze che mai abbiano popolato il nostro immaginario. La storia passa spesso sopra la volontà dei protagonisti, e li immobilizza, direbbe Pirandello, in una maschera che essi non hanno mai accettato.
Se Dracula attingeva da una storia vera, quella di Vlad Dracul, quattrocentesco signore di Valacchia, trasfigurando il sangue dei nemici uccisi in quello di belle fanciulle sedotte dal fascino dell’oscuro, la mummia era qualcosa di spiazzante, di inquietante, perché veniva da una civiltà, quella egizia, a quel tempo non familiare, nota soprattutto per le sue cerimonie di conservazione dei corpi dei defunti.
Lee impersonò due tentativi su cui regna l’assoluto tabù: il ritorno dal regno dei morti. Ma Dracula era oltre la morte, perché la sua era una esistenza solitaria che passava attraverso – e sopra – i cicli umani. In questo la sua magrezza, il suo sguardo impietrante avevano qualcosa di umano, e favorirono una certa empatia verso colui che cercava l’altro da sé e per trovarlo doveva ucciderlo. Perché in questo modo gli avrebbe donato l’immortalità.
Dietro il vampiro c’era la solitudine, l’eterna ricerca della propria platonica metà. C’era qualcosa che parlava al nostro profondo e lo muoveva. Aveva a che fare con l’eternità dell’amore, che è “più forte della morte” come recita una fonte non sospetta, quella dell’Ecclesiaste.
La mummia no. Era il non-lecito, lo sprofondare dentro quello che i tedeschi chiamarono l’untergrund, vale a dire il sottosuolo, ciò che non deve affiorare perché ormai reso sacro, consegnato una volta per tutte al divino.
È lo stesso principio che non ha permesso a Orfeo di riportate l’amata Euridice alla luce del giorno. Neanche gli dèi possono cambiare il destino dell’uomo. La mummia rappresentava il monstrum in senso etimologico, qualcosa che colpisce la nostra attenzione in modo irrevocabile e implacabile, che si mostra senza poter essere elusa.
È il simbolo di tutto ciò che non accetta il destino, che sfida la legge divina inscritta nella natura. Ma lui, questo volto emaciato e gelido, che sembrava l’essenza di certo spirito british, aveva sangue italiano: la mamma, Estelle Marie Carandini, apparteneva ad una delle più importanti famiglie nobili della penisola, quella dei marchesi di Sarzano. Non è un caso che il paese di Casina, in provincia di Reggio Emilia, dove avevano vissuto i suoi avi, gli abbia conferito la cittadinanza onoraria nel 2004.
Duecentottanta film girati (il primo nel 1948), una maschera diventata un’icona, una presenza imponente (un metro e novantacinque), lo hanno consegnato alla storia. Lee paradossalmente non è stato mai nominato per l’Oscar. Chissà che dispiacere, penserete voi. No. Perché se avesse avuto una nomination, sarebbe stato probabilmente per Dracula. E lui detestava quella maschera che lo aveva imprigionato, tanto da rifiutare, lui in genere gentilissimo, di mettere la sua firma su foto in cui appariva in quel ruolo.
Si sentiva un attore in grado di essere altro che il terribile vampiro. Ma quel vampiro gli ha concesso di diventare una delle più inquietanti presenze che mai abbiano popolato il nostro immaginario. La storia passa spesso sopra la volontà dei protagonisti, e li immobilizza, direbbe Pirandello, in una maschera che essi non hanno mai accettato.
Marco Testi