Curiosamente il sobborgo in cui è situata l’affascinante villa di Alexander Iolas, importante figura di collezionista a cui è stata dedicata la mostra in corso alla Galleria del Credito Siciliano, prende il nome di Aghìa Paraschevì, Santa Parasceve, un nome a noi familiare che, come una piccola stella luminosa che tracci la via, suscita in noi il motivo di una piacevole e insolita sorpresa.
Accade così che, anche quando ci si trova a trattare di argomenti legati ad un paese di lingua straniera, a migliaia di chilometri di distanza dalla propria città come la Grecia, ci si sente in verità particolarmente vicini, avvolti da un motivo di gioia particolare. Perché Venera, Veneranda, Parasceve è la Santa patrona di Acireale, che la festeggia il 26 luglio nel giorno del suo martirio con grandi onori e fuochi, secondo antica tradizione barocca e poi ancora il 14 novembre, ricordando il rinvenimento o la traslazione delle reliquie. Giorno, quest’ultimo, sentito ad Acireale anche come festa votiva perché a lei si rivolsero le anime devote durante il lungo bombardamento aereo della seconda guerra mondiale, che avvenne nella notte del 14 novembre del 1941. In quella occasione, ricorda ancora qualcuno, la città riuscì a sfuggire dal pericolo della distruzione, riportando solo pochi danni.
Secondo tradizione agiografica, la santa, lungamente attesa e desiderata dai genitori Agatone e Polìtìa, dopo molte preghiere e digiuni, venne alla luce un Venerdì Santo del sec. II d.C., giorno caro ai cristiani che ne celebrano il ricordo della Passione di Cristo redentore dell’umanità. Per la profonda devozione al Signore, dunque, e in ringraziamento del dono della genitorialità, giunto in un momento così pregno di significato, i due vollero dare alla figlia un nome che ne ricordasse il sacro giorno, il Venerdì, chiamato Parasceve dai greci.
Bisogna sapere che i giorni della settimana, in Grecia, non traggono la loro nomenclatura, come fanno i paesi di lingua latina, dai pianeti del sistema solare, a loro volta ispirati alle divinità pagane, bensì da altre tradizioni culturali. Ne è prova proprio il Venerdì, il dies Veneris dei latini, da cui deriverebbe il nome Venera, che in greco non si presenta, come ci potremmo aspettare, col corrispettivo significato di “giorno di Afrodite” – com’è noto infatti le due divinità coincidono – esso è chiamato invece Parasceve, cioè giorno della preparazione. Poiché infatti il Sabato era considerato sacro e di assoluto riposo da ogni forma di attività lavorativa, secondo l’uso ebraico, ogni cosa andava preparata il giorno prima. Va osservato che in antico, pur esistendo una suddivisione settimanale, i giorni erano invece indicati solo in base alla loro numerazione interna, dal primo al settimo. Il venerdì, V ημέρα, quinto giorno (ove numerazione è quella del sistema latino), da leggersi V-emèra, Vèmera, presenta una somiglianza fonetica notevole con Venera.
Su di lei, sulla sua vita, sulla sua identità gli studiosi dibattono ancora oggi, rammentando varie ipotesi, memorie e antichi documenti, ma la sostanziale identità di fondo tra la tradizione greca e quella latina è stata già messa il luce da tempo dai padri bollandisti, nell’imponente rigoroso studio sulla vita e gli atti dei santi, dove la Parasceve dei greci, la Parasceve di Iconio e la Venera degli italiani sono state riconosciute come la stessa persona. La grande diffusione dei luoghi di culto in prossimità di resti archeologici e antichi templi di epoca classica, si spiega probabilmente col proposito della cristianità di soppiantare e rovesciare l’antico culto a Venere, vuoto idolo di pietra e simbolo d’amore profano. La devozione si rivolgeva ora ad una Santa cristiana che portava nel nome il ricordo dell’estremo sacrificio, dell’amore sacro di Cristo per il suo popolo, unica vera strada da percorrere per giungere alla salvezza. Anche ad Acireale una piccola chiesa denominata Santa Venera al Pozzo sorse, prima del XIV secolo, in una zona archeologica, con antiche terme romane, dove la tradizione vuole che Santa Venera abbia compiuto opere di misericordia nella cura degli ammalati, avvalendosi delle sorgive di acqua sulfurea lì presenti.
Che poi la città le abbia dato i natali, tradizione talvolta posta in dubbio, lascia aperta la questione dell’origine greca o latina. Come è il caso di molti gloriosi santi martiri dell’antichità, l’ampia distanza temporale rispetto all’epoca in cui vissero, unita alla vastità dell’area di diffusione dei luoghi di culto, si traducono in una rarefazione delle tracce documentarie coeve. E dunque non è comprovato se la santa sia effettivamente nata Sicilia e il suo culto si sia diramato verso la Grecia e le popolazioni balcaniche e Slave, o piuttosto sia accaduto il contrario, che dall’oriente il percorso abbia portato in occidente. Un ruolo significativo di divulgazione e custodia della tradizione scritta dovettero comunque avere i monaci basiliani, ben presenti nel messinese sin dall’VIII secolo.
Fra le più antiche testimonianze visive di questo culto in terra di Sicilia meritano un’attenzione speciale quelle che trovano posto fra i rutilanti mosaici dorati della Cappella Palatina di Palermo e della Cattedrale di Monreale, del sec. XII, in cui ella si riconosce per l’iscrizione latina “Santa Benera” posta ai lati. A quell’epoca sono già scomparsi i caratteri dell’antica iconografia diffusa in Grecia, che la denotava per la sua capacità taumaturgica di ridonare la vista ai ciechi o in senso lato di illuminare lo sguardo alla verità, ove tiene la croce con una mano e con l’altra un piattello su cui sono adagiati un paio d’occhi, attributo con il quale siamo ormai abituati a riconoscere Santa Lucia. Quando nel XVII secolo Santa Venera sarà elevata al ruolo di Patrona di Acireale, edificando per lei una meravigliosa cappella nella Cattedrale, sarà definitivamente fissata la sua iconografia che ce la presenta con in mano la croce, le sacre scritture e la palma della vittoria su cui sono infilate tre corone, simboli del martirio, della verginità e dell’opera evangelizzatrice.
Paola Bonaccorsi