Scriviamo queste parole mentre le mani quasi fremono, o forse tremano: i nostri territori jonico-etnei, come del resto la comunità internazionale tutta, si riaprono con prudenza e complessità alla vita sociale, dopo mesi surreali e inimmaginabili, che la storia ricorderà come la pandemia del Covid-19 scatenatasi con l’arrivo del 2020. Lo facciamo cercando di tratteggiare un pezzo di storia che non scorderemo mai e le cui pagine effettive, ovviamente, appariranno più chiare a chi ci leggerà tra uno, dieci, vent’anni, quando molti aspetti appariranno chiariti su altre pagine… Ma lo facciamo soprattutto perché “non vediamo l’ora” di baciare i nostri cari, riabbracciare i nostri amici, rimettere mano alle nostre attività, scambiare quei gesti che, da sempre, ci rendono esseri unici, almeno nell’universo ad oggi conosciuto. E lo facciamo, soprattutto, affinché nessuno dimentichi quelle luci che tennero accesa la speranza, quando tenebre di sconforto, di disagio e addirittura di morte angosciavano il nostro paese e, inevitabilmente, anche la nostra comunità jonico-etnea.
Costretta in buona parte in casa dai primi di marzo, quando la pandemia faceva conoscere al mondo il suo volto più terribile, quello dei mezzi militari incolonnati nella notte a Bergamo per trasportare le salme di centinaia di morti, cui questo Coronavirus aveva impedito persino un ultimo saluto dei propri cari, la nostra comunità non ha perso la speranza. Non l’ha persa grazie a quanti, impegnati soprattutto nelle terapie intensive, non potevano arrendersi, ma non l’ha persa neanche tra quegli operatori di supermercati o alimentari che non solo hanno continuato a lavorare per garantire i servizi essenziali, ma hanno anche speso tempo e risorse per donare quanto potevano alla nostra comunità ferita. Come non l’ha persa grazie a volontari e religiosi che non hanno mai smesso di assistere come potevano, con carità fraterna, chi soffriva sul piano materiale e psicologico una situazione imprevedibile e gravosa.
E non l’ha persa soprattutto in buona parte dei nostri giovani, non rassegnati a rimanere inermi di fronte al Lockdown: luci di una speranza che abbiamo visto non spegnersi, alimentando chi avrebbe temuto di restare altrimenti solo, anche solo per ricevere una busta di spesa, non potendo da solo recarsi al supermercato. Come “ddi carusi”, quei ragazzi, come li chiamano dalle nostre parti, di Le Panier Bags, laboratorio artigianale di pelletteria con sede nel cuore di Acireale, capaci di non fermarsi di fatto mai, sfidando la paura e lo sconforto, l’incertezza e la preoccupazione. E non certo per vendere a ogni costo, dato che trasporti e logistica si arrestavano. Né per eludere leggi o restrizioni che invece hanno osservato eccome, con tutti i disagi annessi. No: abbiamo visto nei volti di quei ragazzi di Le Panier Bags, quelli di Andrea, Tina, Saro, Lucia, Mario, intenti a riadattare quasi fin da subito il laboratorio al servizio della nostra comunità, per produrre mascherine, quelle luci grazie alle quali un territorio non muore, respira e può rinascere.
Perché mentre le dirette del governo scandivano le prime frenetiche giornate di Lockdown tra un decreto e l’altro, di mascherine, almeno qui, non se ne vedeva l’ombra e così, “quei ragazzi” di Le Panier Bags, che osservavamo già prima, intenti nel loro certosino lavoro di produzione, si sono reinventati quale risorsa fondamentale per chi era chiamato a combattere in prima linea questa guerra oscura: forze dell’ordine, personale sanitario e operatori della filiera alimentare primaria. Ricorderemo questo loro reinventarsi pressoché immediatamente produttori di mascherine, come un seme esemplare per il territorio, generativo come il loro entusiasmo e travolgente come i ritmi di lavoro che, in tempi normali, li hanno visti servire il mondo della moda e del design, del lavoro e del mercato. Ed è a loro che la Diocesi di Acireale, a nome del comprensorio jonico-etneo di oltre 290 mila anime che rappresenta, dice grazie, tributando loro questa testimonianza nella raccolta di poesie e tributi artistici che il tempo ricorderà.
E nel ringraziarli, ci piace pensare loro come uno dei modelli fondativi di una comunità ‘’globale’’, radicata ossia nelle sue tradizioni e fedele al proprio territorio d’origine, ma proiettata sui mercati internazionali e ovviamente ad un utile che ne renda sostenibile l’attività, senza perdere occasione per restituire al territorio opportunità di lavoro e solidarietà. Dall’età media sotto i 30 anni, questi ragazzi progettano e sviluppano accessori, borse e manufatti in pelle per importanti marchi ma, a differenza di tante altre aziende, sono e restano orgogliosamente “made in Sicily”, in rispetto chi ha deciso di “delocalizzare” in altri paesi, anche extraeuropei. E questo, per noi, era già un grande segnale, che hanno arricchito con i loro gesti in questa pandemia, senza comunque marchiare le loro mascherine: “perché per queste cose non conta il marchio” ci hanno detto.
Era già una sfida poter vivere la propria terra, tra il sole delle Chiazzette e i colori dell’Etna, impegnandosi in un lavoro che, d’altro canto, non può fermarsi né sul piano della quantità né su quello della qualità, fatta di formazione e innovazione continua. Sarà una sfida ancora maggiore quella di un mondo che fa i conti con la ripartenza dopo lo “tsunami” del Covid19”, eppure, nell’offrire a chiunque leggerà questo elaborato culturale congiunto, ci piace pensare che quella società 4.0 del nostro domani sarà come lo modelleremo e, se avrà lo spirito di ‘quei ragazzi’ di Le Panier Bags, sarà luminosamente generativo per tutti. Perché la semina, nel Vangelo, è un concetto ricorrente e preciso, che rafforza e illumina ogni tenebroso sconforto: nel restituire alla nostra comunità “Non vedo l’ora”, raccolta all’insegna della poesia, dell’arte e della memoria, frammenti di percezioni di assoluto nello spazio e nel tempo, “non vediamo l’ora” di seminare, insieme a quanti si sono spesi, come “quei ragazzi di le Panier”.
Mario Agostino – #MemoriaCovid19