In questi anni di recessione che sta cominciando a colpire pure i Paesi cosiddetti “in via di sviluppo”, un dato fa riflettere: vanno a gonfie vele tutti i marchi del lusso. Nel mondo è tutto un susseguirsi di aperture di negozi, di fatturati in crescita per le maison del lusso, di utili a piovere. Ovunque vanno a ruba borsette carissime e orologi a cinque cifre (in euro, dollari o franchi fa lo stesso); di vestiti firmati e di smartphone carissimi. Porsche, Ferrari e Maserati faticano a tenere testa ai troppi ordini di acquisto; la nautica è in crisi ma non quella degli superyacht. Si fa incetta di vini pregiati e di whisky a lungo invecchiamento, non parliamo del caviale e del tartufo; gli hotel a cinque stelle del mondo intero non hanno conosciuto crisi, così come le vacanze più esclusive e costose. C’è crisi del mattone? Non a Montecarlo, Londra, Cortina.
Non parliamo dell’arte: prezzi in continua ascesa, anche per quella “moderna” che anzi strappa le quotazioni più elevate, contesa tra ricconi americani, russi, cinesi, brasiliani.
Insomma più è costoso, esclusivo, griffato, più è conteso dai Paperoni di un mondo sempre più popolato di Paperoni.
Per contro, non “va” tutto ciò che sta in mezzo, che sia auto, vestito, mobile, ristorante o altro. È il trionfo del kebab, dell’Ikea e di marchi di moda a basso costo come Zara, Mango, H&M. L’albergo a due stelle in riva al mare vede sparire la clientela verso il bilocale in affitto; la grande distribuzione di qualità è stata assaltata dagli hard discount, con notevoli perdite.
Siamo circondati di oggetti a basso costo e spesso di bassa qualità, costruiti in Cina o Bangladesh. Un francese ha deciso di vivere alcuni mesi utilizzando solo prodotti made in France. Ha dovuto desistere, rischiava di ritrovarsi con gli stessi beni di cui si circondava Francesco d’Assisi.
Tutto questo per dire che la globalizzazione sta sicuramente avendo un gigantesco merito: quello di cancellare anno dopo anno la fame più estrema nel mondo. Vedi l’India, ad esempio. Ma sta pure provocando un gigantesco divario tra quei pochi che se la passano benissimo, e una grandissima maggioranza che progressivamente si sta impoverendo. Fenomeno che da anni sta riguardando pure l’Italia. In Occidente è un fenomeno di retrocessione sociale: quasi cancellato quell’“ascensore” che permetteva – studiando e impegnandosi nel lavoro – di salire nella scala sociale delle ricchezze. Nel resto del mondo è la solita, vecchia povertà che scatena colossali fenomeni di caotica urbanizzazione (Cina, India, Nigeria, Egitto, Indonesia…) o addirittura di fuga disperata verso di noi.
Stiamo forse tornando indietro di secoli, quando c’erano classi nobiliari che si dilettavano a costruire spettacolari ville di campagna fuori Venezia, mentre nel contado i villici morivano di pellagra. Ecco, oggi i villici hanno risolto il problema alimentare, mentre i ricchi lo sono sempre in maniera sproporzionata rispetto al resto dell’umanità.
Eppure il Novecento è stato il secolo della distribuzione sociale, delle socialdemocrazie e del popolarismo al governo, del welfare esteso… Infatti è nel Novecento che nasce e si sviluppa la cosiddetta classe media. Classe che oggi sta retrocedendo.
Tante le cause, noi ne individuiamo due: forme di capitalismo estremo che fanno l’enorme interesse di pochi sulle spalle di moltissimi; forme di elusione fiscale su scala mondiale che semplicemente permettono a chi è ricco di esserlo ancora di più.
Dovrebbe essere la politica a frenare, a mediare, a correggere. È che proprio non ce la fa: come riesci a stanare una multinazionale che fattura in altri Paesi, ha sede in un paradiso fiscale e i cui azionisti sono di fatto pulviscolo nell’aria?
Non consideriamo tutto ciò inevitabile, però; non rassegniamoci. La classe media è il collante della democrazia, la garanzia migliore della pace, la più efficace fabbricatrice di benessere globale. Non torniamo indietro: non si stava meglio, quando si stava peggio.
Nicola Salvagnin