Incontriamo Johnny Dotti ad Acireale, in una mite serata invernale, qualche ora prima di un intervento a margine dell’assemblea del Consorzio Gruppo Luoghi Comuni, gruppo di cooperative con sede ad Acireale che opera in svariati campi dell’universo del terzo settore. Il prof. Dotti, è uno degli attori di spicco del terzo settore italiano ed è frequentemente al centro del dibattito, per le sue interessanti e a volte provocatorie tesi sui temi del welfare e sulla riforma del terzo settore.
“Buono è giusto” è il titolo del suo ultimo libro. Ma è ancora possibile trovare una chiave interpretativa che permetta di pensare politiche realmente efficaci e inclusive di fronte alle sfide che ci consegnano gli ultimi avvenimenti mondiali?
“Nel tempo della tecnica e delle macchine, che fanno tutto il possibile, all’uomo e alla sua libertà è rimasto soltanto l’impossibile. Dunque io non mi preoccuperei di ciò che è possibile, ma di quello che so che è impossibile, e dunque mi compete e mi da uno spazio di libertà e possibilità”.
La crisi che stiamo vivendo e le fortissime tensioni internazionali, trovano alimento anche in un impianto sociale e politico che, nella carenza delle risorse tradizionali, diventa forse sempre meno universale e inclusivo. Quale può essere una direzione possibile, per trovare risposte di pace e vie nuove per declinare nuovi diritti (e doveri) nelle nostre democrazie?
“Nuovo welfare deve voler dire nuove forme di convivenza, non necessariamente di diritti o servizi. Ci sono almeno due o tre ragioni per indurre questo cambiamento. La prima è demografica. L’aumento della speranza di vita, genera un panorama completamente diverso da quello di mezzo secolo fa. Il secondo versante è quello economico, il welfare è sempre stato rubricato come un costo. Non è più sostenibile, a patto di ripensare il modello in senso generativo di risorse. La terza questione è di natura educativa: non siamo solo “volontà di potenza” – come ci ha insegnato il ‘900 – ma siamo anche e contemporaneamente “fragilità”. Abbiamo bisogno di rimettere insieme questi due concetti per rifondare il concetto di solidarietà guardando a questa fragilità come una risorsa su cui costruire senso”.
Molto spesso lei si è soffermato a riflettere su una possibile dicotomia tra i concetti di società, regolamentata da leggi, ruoli e bisogni del singolo, e comunità, luogo dei valori condivisi e delle tradizioni. Comunità, valori e tradizioni quasi inevitabilmente sono schiacciati in prima battuta, per poi riemergere quasi come “controvalori” nella retorica populista delle destre. Esiste una via per riappropriarsi in senso costruttivo e generativo di questi concetti fondanti?
” Il filtro attraverso cui riorganizzare questi concetti classici della nostra storia è la libertà. La libertà intesa come ricerca dei legami che liberano. Non la libertà dell’individualismo, e nemmeno quella del mercato, non la libertà del capitalismo. La libertà deve tornare ad essere personale, rimettere a centro la persona come nodo di relazioni. Una comunità così intesa non produce relazioni chiuse ed esclusive, non produce soluzioni tecnocratiche e finte libertà. La comunità è tale se produce senso e se è capace di rinnovare le tradizioni ricercando non le forme di questa, ma il senso e il valore. Anche il terzo settore, è pur sempre una cosa del ‘900. Non è possibile e pensabile, che mentre cambia tutto, questo non cambi. Si deve trasformare, portandosi dietro ciò che ha di buono: uno spiccato senso di socialità, le intuizioni economiche, alcune idee di politica”.
Per concludere, a fronte di un Paese che invecchia, i cui riferimenti tradizionali si trasformano rapidamente quando non svaniscono del tutto, ragionando ottimisticamente, da dove cominciare la ricerca di un Paese “buono e giusto”?
“Dobbiamo uscire dalle consuetudini, non spaventarci del nuovo. Quello che ci verrà portato via sarà eventualmente il superfluo e non l’essenziale, che è la parte su cui rilanciare l’azione e la sfida. Bisogna uscire dal proprio perimetro per ricentrare sul futuro le proprie origini e i propri valori”.
Salvo Tomarchio