Tre casi in pochi giorni. Bimbi riconosciuti come figli di due madri, come a Torino, oppure di due padri, come a Roma e a Gabicce (Pesaro). A rendere possibile ciò che non è previsto né dalla natura né dalla legge ci pensano le Anagrafi dei Comuni. Così a Torino un bimbo concepito con fecondazione eterologa in Danimarca e nato in Italia ha due mamme, a Roma una piccola nata in Canada tramite la maternità surrogata ha due padri, in provincia di Pesaro due gemellini nati negli Stati uniti, sempre grazie all’utero in affitto, sono oggi “figli” a tutti gli effetti di una coppia di due uomini uniti civilmente.
Secondo il diritto internazionale l’Italia è obbligata a riconoscere ogni atto di stato civile validamente rilasciato da un altro Paese, a condizione che questo documento non sia contrario all’ordine pubblico. Lo scorso febbraio la Corte d’appello di Roma ha confermato che il riconoscimento canadese non lo è, mentre è atteso il pronunciamento della Corte di Cassazione su una analoga precedente sentenza della Corte d’appello di Trento. Non mancano insomma contrasti interpretativi e interrogativi sui rischi di queste procedure. Ne abbiamo parlato con Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale e uno dei più autorevoli giuristi italiani.
“L’atto di nascita ‘confezionato’ dall’ufficiale dello stato civile italiano – premette il giurista – non prevede la possibilità che sia dichiarata una doppia paternità o una doppia maternità. L’impostazione del nostro sistema, orientata all’elemento naturale, prevede per l’atto di nascita un padre e una madre, non altre possibilità”. Di qui il tentativo di aggirare l’ostacolo con il ricorso alla trascrizione nei registri dello stato civile italiano di un atto di nascita redatto all’estero che però, avverte Mirabelli, “contrasta con il nostro ordine pubblico” perché “allo stato, il nucleo essenziale delle leggi italiane inderogabili per il nostro ordinamento non prevede, anzi esclude, questo tipo di riconoscimento”.
Il giurista ravvisa un “elemento di forzatura della legislazione dal punto di vista giurisprudenziale nel richiamo all’interesse del minore ad avere riconosciuta una situazione di fatto creatasi”. Tuttavia, chiarisce, “anche aderendo a questa impostazione non può essere un atto autonomo dell’amministrazione che è tenuta a rispettare le leggi, né può sollevare questioni di legittimità costituzionale. Può eseguire l’ordine del giudice ma non può compiere autonomamente scelte di questo tipo, né lo possono fare autonomamente i Comuni perché lo stato civile è un’attività di competenza statale delegata ai Comuni che esercitano funzioni statali”.
Mirabelli non ha dubbi: “Dal punto di vista formale, attualmente la trascrizione di questi atti urta contro un principio di ordine pubblico; dal punto di vista sostanziale è l’ultimo approdo di una pretesa di genitorialità da parte di coppie dello stesso sesso.
Dal punto di vista biologico non esiste una possibilità di nascita da persone dello stesso sesso: si tratta pertanto di una sovrapposizione legal-fittizia alla situazione reale”.
Di qui l’interrogativo: “Come si potrebbe soddisfare l’esigenza di protezione del minore quando si è creata una situazione di fatto consolidata? Attribuendo anche all’altro soggetto i doveri di provvedere all’educazione, al mantenimento, alla rappresentanza del bambino attraverso le forme dell’adozione, ma anche questa – osserva – sarebbe una strada rischiosa”.
Per il giurista occorre tuttavia andare a monte perché il vero interrogativo di fondo è: qual è il reale interesse del minore?
Dare soddisfazione all’interesse di adulti di avere un bambino da chiamare figlio, oppure nascere da un papà e una mamma che hanno secondo l’esperienza comune diverse sensibilità e sono figure differenti e complementari nelle modalità educative, espressive, affettive?”.
“Al di là di una valutazione legislativa per vietare, approvare, regolare questa pratica occorre una profonda riflessione antropologica perché non si verifichi un atto di egoismo, una vittoria del dominio sugli altri”. Il giurista ricorda che la pratica dell’utero in affitto comporta “il rischio di una commercializzazione camuffata sotto la formula indennizzo o rimborso spese e manifesta una forma di dominio del più forte sul più debole”. “La domanda da porsi – insiste – è se tutto questo sia realmente nell’interesse del minore, se lo tuteli realmente oppure se non esprima l’egoismo degli adulti attraverso un presunto e preteso diritto ad avere un bambino a tutti i costi”.
“A suo tempo – ricorda – la Corte costituzionale si è pronunciata sulla Legge 40 e sulla fecondazione eterologa. Dal punto di vista penale la maternità surrogata non è ammessa dal nostro ordinamento, ma assistiamo a fenomeni di globalizzazione che diffondono pratiche ovunque e comunque. Uno tra tutte la donazione di organi che diventa commercio, o sottrazione; una vendita camuffata attraverso formule indennitarie, pur essendo una forma di violenza sull’adulto.
La maternità surrogata non potrebbe configurarsi anche come una forma di violenza sul nascituro?
“Molte – conclude – le domande aperte. Non escludo ci possa essere anche nelle convivenze tra persone dello stesso sesso una capacità di attenzione e responsabilità nei confronti di un minore, di educazione, mantenimento, rappresentanza dei suoi interessi, ma questa ‘imitazione’ della natura deve essere necessariamente qualificata come genitorialità naturale?”.
Giovanna Pasqualin Traversa