La principale sfida per il nuovo governo è rimettere in movimento un Paese bloccato. In sintesi è questo il messaggio che viene da Roberto Rossini, presidente nazionale delle Acli, nel giorno in cui a Bologna inizia il 52° Incontro di studi che tradizionalmente l’associazione organizza nel mese di settembre. “Il Pil cresce in percentuali irrisorie, non si fanno figli, è difficile investire, i migliori cervelli se ne vanno all’estero. Il sistema si è inceppato”, sottolinea Rossini. Si è bloccato anche il cosiddetto ascensore sociale. “In Italia nel migliore dei casi resti quello che nasci. Per un bambino di una famiglia a basso reddito – osservano le Acli – ci vogliono cinque generazioni per entrare nel ceto medio e anche chi è nato in una famiglia di classe media si trova spesso a fare esperienza di una qualche forma di declassamento”. In una situazione del genere “la coesione sociale è a rischio” e si pone “una questione democratica fondamentale”, come dimostra l’insorgere e il radicarsi del populismo.
Il tema del vostro Incontro di studi è “In continuo movimento. Le Acli, la mobilità sociale e la democrazia”. Ma quando lo avete pensato il quadro politico del Paese era completamente diverso…
È vero, ma le tendenze in atto non sono nate ieri. E a ben vedere al nuovo governo chiediamo – non per noi, ovviamente, ma per il Paese – le stesse cose che avremmo chiesto al precedente.
Quali?
Faccio tre esempi e riguardano tutti, direttamente o indirettamente, l’ambito del lavoro, che è la grande questione sociale del Paese. Il primo punto è il sistema fiscale. C’è bisogno di rivedere il patto fiscale tra il cittadino e lo Stato.
Non è accettabile che il carico delle tasse continui a pesare in larga misura sui ceti popolari e i lavoratori dipendenti. Bisogna aiutare quelli che le tasse le pagano, non quelli che non le pagano. E questo vale anche per i lavoratori autonomi.
Il secondo punto è il sistema previdenziale. Noi non abbiamo dato un giudizio negativo su quota 100, ma dev’essere chiaro che si tratta di una scorciatoia. L’Italia ha un sistema pensionistico concepito negli anni Cinquanta, quando si cominciava a lavorare presto e tendenzialmente si rimaneva tutta la vita nello stesso posto di lavoro. Adesso il problema è assicurare una pensione anche a chi trova un’occupazione in ritardo, a chi svolge lavori precari o comunque discontinui, alle stesse partite Iva. Il terzo punto, ma a nostro avviso quello strategicamente più importante, è la formazione professionale. Inutile girarci intorno: la formazione professionale è lo strumento migliore per ottenere un lavoro e se non si torna a investire in questo settore gli sforzi per combattere la disoccupazione rischiano di essere vani o irrilevanti. Tra l’altro il sistema della formazione professionale è articolato su base regionale e questo rende possibile modulare gli interventi in maniera molto più mirata.
Come valuta l’impostazione programmatica del nuovo governo, tra l’accordo politico dei partiti di maggioranza e la presentazione di Conte in Parlamento?
C’è stato evidentemente un cambio radicale nel tono e anche per quanto riguarda i contenuti mi pare molto apprezzabile il riferimento a un ‘nuovo umanesimo’ e agli obiettivi dell’agenda 2030 dell’Onu. In particolare, poi, mi è sembrato degno di nota il richiamo al superamento delle disuguaglianze che in Italia ci sono, eccome. Se ne parla poco, ma ci sono.
E questo chiama in causa il reddito di cittadinanza…
Credo che sia necessario
fare un tagliando a questa misura, dopo la prima fase di applicazione.
Magari recuperando anche alcuni aspetti del reddito d’inclusione, come il coinvolgimento del terzo settore nella progettazione locale, e distinguendo meglio le politiche contro la povertà dalle politiche attive del lavoro. Non dimentichiamo, poi, che è rimasta incompiuta la riforma dei centri per l’impiego.
Sulla questione dei flussi migratori sembra che, a livello europeo, qualcosa si sia finalmente messo in moto, anche in seguito alla fine dell’atteggiamento ostile dei vertici politici italiani verso la Ue.
L’idea che tale questione possa essere affrontata dall’Italia da sola chiudendo qualche porto era ed è semplicemente ridicola. Si tratta di una questione quantomeno europea e aver recuperato un rapporto positivo con l’Unione può aprire la strada alla collaborazione necessaria per affrontare i problemi in modo ordinato e condiviso. Sul piano interno, comunque, vanno aboliti i decreti sicurezza – che oltre a tutto il resto si stanno anche rivelando inefficaci – e bisogna riprendere a lavorare sui percorsi di integrazione.
Stefano De Martis