Ogni legge di riforma, una volta approvata, non chiude, ma apre un processo. Tutte le leggi di riforma finora faticosamente e conflittualmente approvate, in realtà contengono deleghe per successivi provvedimenti applicativi, in primis quelle su lavoro e scuola
“In Italia non c’è altro che fattioni, e parzialità”: lo scriveva cinquecento anni
fa il padre della storiografia moderna, Philippe de Commynes. Ricordare questo giudizio, tante volte ripetuto dagli osservatori europei in tanti momenti di passaggio, può servirci ad evitare di intrappolarci in una “coazione a ripetere”, in un momento delicato.
Per più di un anno siamo stati martellati con l’annuncio, la discussione, e anche l’approvazione di riforme, sui più vari aspetti della vita istituzionale, sociale ed economica. Nel discorso sulle riforme si è accumulata ovviamente molta retorica, forse troppa, con l’andare del tempo. C’è una personalizzazione inusitata, rispetto ad altre stagioni politiche della Repubblica, c’è una politicizzazione evidente, che rende tutto più conflittuale, più difficile, anche se talvolta il conflitto è proprio cercato, per marcare con più evidenza l’obiettivo.
In realtà però ogni legge di riforma, una volta approvata, non chiude, ma apre un processo.
E’ questo che sfugge alla superficie del caravanserraglio della politica, ma che interessa i cittadini. Tutte le leggi di riforma finora faticosamente e conflittualmente approvate in realtà contengono deleghe per successivi provvedimenti applicativi, in primis quelle su lavoro e scuola.
Se vogliamo ancora una volta dare ragione a Philippe de Commynes qui si arresterebbe il processo, travolto da “fattioni e parzialità”, ovvero, traducendo la traduzione seicentesca, da conflitti e corporazioni.
Riformare l’Italia insomma sarebbe impossibile, secondo questo consolidato punto di vista, perché le élites altro non si preoccuperebbero che del proprio tornaconto e sarebbero talmente litigiose tra loro da perdere qualsiasi prospettiva sistemica. Per cui, come chiosò centocinquanta anni fa Metternich (quello “dell’espressione geografica”) l’Italia non è solo irreformabile, ma anche ingovernabile. E per questo ha bisogno della tutela delle grandi potenze.
Questi schemi antichi, ma profondamente inseriti nella memoria lunga, possono essere falsificati. E lo sono stati in diversi momenti felici della nostra storia, anche non lontanissima.
In realtà le riforme (che, non dimentichiamolo, sono in gran parte quelle che l’Unione Europea e la Banca Centrale Europea ci “imposero” nell’estate di quattro anni fa) non sono solo uno strumento di lotta politica. La fattura di molti testi è approssimativa: però, se quel che contava era avviare il processo, ancora più importante è seguirlo, governarlo.
Per questo bisogna assolutamente combinare gli elementi verticali, che sono stati anche troppo spinti, con quelli orizzontali: non possiamo stressare il corpo sociale senza poter contare su élites adeguate. Al contrario bisogna realizzare processi bilanciati e valorizzare, responsabilizzandole, le soggettività. E alle riforme bisogna fare il tagliando, ovvero saper cambiare in corsa quello che si deve cambiare.
Non è facile, ma è la sola maniera per governare davvero, senza alibi e senza scorciatoie.
Francesco Bonini