OLTRE LA CRISI/1 La ripresa passa dalla nuova industrializzazione

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Bisogna ricominciare a remare, sgombrando la rotta da iceberg potenzialmente negativi, anche se apparentemente affascinanti. Due su tutti: la decrescita felice e la crescita “alternativa”. Per la prima basta dire che i poveri non possono attendere, per la seconda va preso atto che turismo, artigianato e km zero non riescono a sostituire il Pil dell’industria. Dunque, occorre tornare a costruire i campioni italiani, anche con l’aiuto dello Stato.

“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che (…) impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3 della Costituzione italiana).

“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che (…) impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3 della Costituzione italiana).

E si converrà unanimemente che la povertà sia uno degli ostacoli maggiori per quel pieno sviluppo. Ecco: da qui vogliamo partire per affrontare l’assoluta necessità di una ripresa economica del sistema-Italia, una crescita che deve trovare le giuste strade. Perché quelle degli ultimi anni sono state sostanzialmente sbagliate.

Partire dagli ultimi, e dai numeri. Le statistiche Istat ci dicono che il dato della povertà in Italia è stato, fino a ieri, sostanzialmente stabile: circa un 12% degli italiani può essere classificato come “povero”. E questo da una quindicina d’anni. Scopriremo però che il 2012 ha dato il suo bel contributo ad aumentare quella percentuale, che in soldoni significa 8 milioni di italiani con gravi problemi economici.

Ma un dato statistico non racconta sempre bene la realtà. Questa invece spiega che la schiera dei cosiddetti poveri si sta ingrossando grazie anche all’arrivo di nuove figure sociali: gli anziani che, superata l’enorme barriera del pudore, chiedono aiuto; i 40-50enni che perdono il lavoro e faticano a trovare una qualsivoglia occupazione; i separati a basso reddito; i piccoli imprenditori – negozianti, artigiani – che si sono “mangiati” tutto cercando di salvare la loro baracca; gli immigrati che gettano la spugna.

A dirlo è la Caritas nazionale, che registra un semplice dato: alle porte delle sue 220 Caritas sparse sul territorio, nel giro di un anno si è presentato il 25% in più di bisognosi. Ci sono realtà ormai sature, soprattutto nel Mezzogiorno (Palermo, ad esempio): troppe richieste di aiuto rispetto alle forze a disposizione.

C’è, o ci sarebbe un welfare. In Italia significa almeno 30 forme varie di sostegno, quasi tutti inefficaci se si pensa che il nostro Paese è quello europeo in cui la povertà meno si riduce dopo gli interventi sociali messi in campo. Poco efficaci, in calo e sempre meno corposi: gli enti locali tagliano, riducono, cancellano, alzano le mani. Si fa con quel che si ha, a costo del ridicolo. Lo Stato attiva l’istituto degli assegni familiari che “beneficano” i contribuenti per una media di 10 euro al mese. Grazie tante. In dodici città italiane si è attivata una “carta acquisti” tanto smunta quanto impossibile da ottenere: ci vogliono requisiti che nemmeno i clochard di strada. E così via.

“Il miglior modo di eliminare i poveri è farli diventare ricchi”, diceva Ronald Reagan con quel tono da presidente-cow boy. Fosse così semplice… Ma la sparata contiene una sua importante, banale verità: in un Paese, se c’è maggior ricchezza stanno bene tutti. E quindi vale la banalità opposta: più perdiamo la nostra ricchezza, più poveri diventeremo. È quello che sta accadendo agli italiani dal 1991 ad oggi. Il Prodotto interno lordo depurato dall’inflazione ci ricorda che questo Paese ha smesso di crescere da più di vent’anni. E negli ultimi dieci ha innescato sostanzialmente la retromarcia.

La ragione è semplice: spendiamo più di quanto guadagniamo, e l’esplosione del debito pubblico è stato il tentativo di mantenere un tenore di vita agiato, senza averne i mezzi. Ora siamo alla resa dei conti, letteralmente. Una diffusa situazione di illegalità (evasione fiscale, lavoro nero, gli enormi proventi della criminalità organizzata) ha finora tamponato la realtà dei conti, che parlano di uno Stato in pre-bancarotta. La povertà non è ancora esplosa perché vi è molta ricchezza occultata; perché ci stiamo consumando i risparmi e il patrimonio; perché istituti come la cassa integrazione stanno “congelando” una disoccupazione altrimenti vertiginosa.

Ma bisogna ricominciare a remare, sgombrando la rotta da iceberg potenzialmente negativi, anche se apparentemente affascinanti. Due su tutti: la decrescita felice; la crescita “alternativa”. Sulla prima ci soffermiamo appena, rilevando che la decrescita economica sarebbe felice solo per chi può permettersela. I poveri – chi ha bisogno di un aiuto anche economico – sarebbero ancora più poveri, ancora più numerosi, ancora più abbandonati. Punto.

La crescita che definiamo “alternativa” non è di per sé cattiva cosa: risponde a quella corrente di pensiero che sostiene che lo sviluppo dell’Italia deve passare dal turismo, dalle sue bellezze artistiche e paesaggistiche, dai milioni di cinesi che non vedrebbero l’ora di venire qui, dalla nostra sapienza artigianale, dalle piccole e geniali start up e dal terziario stra-avanzato. E qui ribadiamo un concetto espresso già altre volte: quante decine di migliaia di agriturismi ci vogliono, per fare i fatturati e l’occupazione dell’Ilva che sta morendo a Taranto? E come riforniamo di acciaio le centinaia di aziende manifatturiere italiane? Con gelati a km zero?

Questa visione arcadica va bene per qualche piccola isola greca, in cui gli abitanti si accontentano di olive e feta. Non per un Paese di 60 milioni di persone, strette in 300mila km quadrati senza alcuna notevole risorsa naturale. Un Paese che ha oggidì 16 milioni di pensionati da mantenere (domani di più), solo per offrire il dato più macroscopico.

Quindi l’Italia deve per forza tornare al… sapore di sale, a quel boom economico fatto da Fiat, Olivetti, Pirelli, Eni e Agip, banche e Generali, Alitalia e Montedison, la statale Iri e quegli elettrodomestici che cambiarono la vita degli italiani, in tutti i sensi. La ripresa economica dell’Italia passa da una nuova industrializzazione. Non sarà fatta come cinquant’anni fa, ma non è impossibile.

NICOLA SALVAGNIN

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