La terribile realtà che stiamo vivendo, denominata “femminicidio” ad uso e consumo del “mordi e fuggi” mediatico (che si ferma quasi sempre alla superficie di un evento) richiede, a mio parere, lo sforzo di addentrarsi nella foresta della comprensione e della ricerca comune più vasta.
Che sia (questa terribile realtà) espressione di “patriarcato”, a me che ho avuto la fortuna di percepirne da ragazzo gli ultimi barlumi, anche se solo eccezionalmente drammatici ma opprimenti, non pare.
Barlumi tutti riferiti alla dinamica familiare fondata sulla impari condizione della donna e sulla ipocrita considerazione piccolo-medio borghese indottrinata da una “morale” molto popolare. Ques’ultima tendeva, a qualsia costo (vedi l’orrendo “matrimonio riparatore”), alla “conservazione” necessaria alla sua autoconservazione e al “ prestigio sociale ”del corpo femminile funzionale alla “ sistemazione” matrimoniale, alla “riproduzione”, alla tenuta proprietaria di essa a fronte di sostentamento, rampantismo economico e conformismo acritico. Due società, in qualche modo di questo tipo, sussistono nell’accezione più propria: quella mafiosa e del brutale integralismo islamico.
Paradigma proprio della società rurale e vetero artigianale negli altri ambiti, ne percepiamo i residuati, anche se ”si vedono più donne che lavorano, più dirigenti, più ragazze nelle università e un pensiero femminile riconosciuto, anche se resta il persistere di stereotipi, spesso invisibili quanto la violenza che, ben oltre l’indignazione per i femminicidi, sottende ancora nelle relazioni tra uomini e donne…” (Luisa Pronzato ).
Manifestazione del femminismo
Considerando la storia della lotta per l’identità femminile, occorre capire perché e come questo “essere prezioso” in ogni senso, tale considerato sin dai primordi della vita, rimase soggiogato e/o sfruttato fino a quando, nella seconda metà dell’800 , una coscienza di “classe” (parafrasando, ma non troppo, Marx) maturò manifestandosi nel fenomeno sociale molto importante definito “femminismo”.
Prima importante diversità di genere femminile e maschile. Sempre in trasformazione il primo, immobile il secondo, incapace di riconoscere l’autentica natura della donna, interpretando la sua libertà, la sua autonomia intellettuale e antropologica come “disponibilità” svincolata da lacci, dogmi, giudizi e, quindi, più facile “proprietà d’uso“.
Dal lontano 1928, infatti, quando le suffragette inglesi conquistarono il completo diritto di voto e reclamarono la parità nel diritto di famiglia, agli anni ’60 e ’70, quando “la società si è trasformata. Così, attraverso il nuovo diritto e le leggi di parità sul divorzio, sull’interruzione di gravidanza, sulle tecniche contraccettive, la cognizione del dominio maschile si è spostata dalla scena sociale come “questione femminile”, alla storia personale. Di conseguenza il corpo, la sessualità, la maternità diventano il luogo primo dell’espropriazione della identità femminile, vista solo come procreazione e confinamento nel ruolo biologico di madre: sottomissione e dedizione all’uomo, sacrificio di sé…”. (Lea Melandri)
Femminismo come sinonimo di liberazione
Si parla allora non più di “libertà”, ma di “liberazione”, non di “differenza” ma “differenziazione” .“… alle radici della subordinazione femminile non stanno l’esclusione dai diritti civili o dal campo economico, ma la supremazia assoluta nella sfera della sessualità e della riproduzione, dove una differenza fisica tramite qualsiasi tipo di violenza, viene trasformata in ruoli sociali e familiari la barriera da rompere è quindi la servitù sessuale…”. (Adriana Caverero).
Ma il senso della libertà si deteriora gravemente in quegli anni ‘80 che vedono la repentina trasformazione della lotta per la parità in lotta per l’integrazione, dalla rivendicazione di indipendenza a quella per l’omologazione acritica.
Sono gli anni della proluvie di denaro facile e criminale, della ricchezza senza lavoro, dello “yuppismo” fantasmatico. La televisione commerciale mostra l’eden della “felicità“, inventando la pubblica donna-oggetto “a portata di mano“. Non ci volle molto a capire che il corpo assimilato al cinico neocapitalismo, era il veicolo immediato conformisticamente “giustificato” e condiviso. Il “bene“ della più profonda femminilità, un tempo rivendicato come inviolabile, ora diventa da “saper vendere” per avere tutto, nuovo familismo amorale, il potere surrogato con la concessione di sé.
La donna diventa “incomprensibile”, ”straniera” al mondo maschile che vive nel riflesso di una dimensione antropologica a lui sconosciuta, perdendo l’orientamento di “re“ e incapace di discernimento, scatenando l’ancestrale brutalità distruttiva su ogni istituzione consolidata.
Oggi, si invocano generici richiami alla protezione, alla cultura scolastica, alle leggi di polizia ultimative. Non si vede un “femminismo” civile moderno partecipativo, svincolato dalle servitù, che sappia diventare soggetto polito sociale determinante, dando forza organizzata alla ribellione.
Rosario Patanè