“Paesaggi del Mito” di Enzo Indaco è il titolo, icasticamente evocativo, della personale di pittura che venerdì 30 novembre alle ore 17:30 aprirà i battenti presso il Palazzo Duchi di S. Stefano di Taormina per chiuderli domenica 6 gennaio 2013. Organizzata dall’associazione “ARTE & CULTURA a TAORMINA”, in collaborazione con la Galleria d’Arte ORIZZONTI di Catania, sfoggiando il patrocinio del Comune di Taormina, della Fondazione Mazzullo e di Taormina Arte, e giovandosi del sostegno del Metropole Maison d’Hôtes, la mostra, il cui catalogo porta la prestigiosa firma di Giuseppe Frazzetto, è parte di un’antologica di opere del Maestro siciliano provenienti da collezioni private e musei pubblici.
Artista di lungo corso, Indaco già oltre 40 anni fa metteva a rumore l’establishment paludato e borghese dell’arte con provocatorie performances di Land Art, sperimentando, nelle arse campagne di Godrano, nell’entroterra siciliano, antesignani Crops Circles in polvere di calce urlanti lo S.O.S. della natura, o recuperando gesti millenari della civiltà contadina – spazzata via d’un colpo dalla “modernità” – e traducendoli con “Solco-Fuoco-Segno” in una sorta di cerimonia di bracieri accesi, sprigionanti effluvi profumati di scorze d’agrumi, in onore degli Dei di una volta.
Invitato già nei primi anni ’70 alle edizioni della Biennale di Venezia e della Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma, oltre che, più recentemente, alla Biennale edizione 2011, per molti anni innovativo direttore dell’Accademia di Belle Arti di Catania, con all’attivo numerose mostre personali in Italia ed all’estero, su di lui hanno scritto i maggiori critici e storici italiani d’arte contemporanea tra cui Francesco Gallo Mazzeo, Carmine Benincasa, Italo Mussa, Achille Bonito Oliva oltre che Claudia Gian Ferrari, Lara Vinca Masini, Vittorio Sgarbi.
Alla Sicilia, terra intrisa di miti e leggende, popolata da Dei, giganti e filosofi, ed alla fascinazione, lunga oltre mezzo secolo, per l’Etna –a Muntagna – Enzo Indaco dedica ora, con “Paesaggi del Mito”, il suo appassionato tributo, sciorinando panorami mozzafiato e ruderi millenari in una mostra di oli e pastelli che ripercorrono parte del suo cammino d’artista. Ad essi affida, rivendicandola, la traslitterazione pittorica di segni, ombre e luci dell’appartenenza dell’uomo, prima ancora che dell’artista, ad una civiltà millenaria, anch’essa fatta di luce e di ombre. Un’appartenenza “carnale” alla terra di Sicilia, prolifico crogiuolo e stratificazione di cultura declinata al plurale, che vede nell’Etna il suo dominus e nel mito e nella leggenda le sue origini ancestrali, poiché nella geografia isolana la mitologia attende sempre al varco.
Ed Enzo Indaco lo fa rifiutando i lacci impositivi e le strettoie del connubio spazio-tempo. Per narrarci una visione, trasfigurata e alata, impalpabile e potente, dall’atmosfera rarefatta e fluida, di una Sicilia percorsa dalle orme di Dei ed Eroi, tra le vestigia imponenti di un tempo andato e quell’Essere, di pietra e di fuoco, che ad ogni eruzione, ad ogni colata, cambia aspetto, fornendo nuove prospettive, incantando con nuovi scenari.
Una pittura dal tratto sapiente e raffinato, quella di Indaco, che racconta con pennellate pulite e nitide della disperazione di Dedalo, che da terra, impotente, assiste al precipitare del figlio Icaro; dello splendore dei resti di un tempio antico nell’assolato agrigentino; delle fattezze ancora poderose di un Telamone oramai smembrato ed inutile a terra. Tocchi eruditi di pennello ad esaltare l’azzurro delle trasparenze del mare siciliano che, nel momento magico del crepuscolo, si va confondendo con l’azzurro del cielo terso, scevro di nubi. Una pittura che Indaco traduce in gesti decisi a bloccare per sempre, sulla tela, il torrente di lava, scuro e magmatico, esaltando la furia del drago di pietra incandescente che sputa fuoco e lapilli. Per arrendersi, poi, con consapevole compiacimento, alla malìa della “Muntagna”, che nella generosità delle sue pingue forme accoglie Valli di “orrido” fascino, ed accarezzarne, ingentilendoli, con una luce cangiante i fianchi, ambrati ed ombrati dal giorno che finisce