L’approvazione, dopo il lungo procedimento canonico di rito, della Santità di Papa Giovanni Battista Montini, che la Chiesa Cattolica proclamerà ufficialmente nel corso della solenne celebrazione del 14 ottobre prossimo a Piazza S. Pietro, costituisce certamente il tanto atteso riconoscimento ecclesiastico alla straordinaria statura, religiosa, storica e morale del grande Papa Paolo VI, che tutti noi ricordiamo con profonda gratitudine e sincero e deferente affetto.
Ed è anche il doveroso e riconoscente pensiero alla memoria del grande Apostolo della Fede che portò a termine il Concilio Ecumenico Vaticano II, aprì sentieri nuovi al dialogo tra i cristiani appartenenti alle diverse fedi religiose, ispirò le molteplici occasioni e le varie opportunità per l’incontro tra i credenti ed i non credenti, indirizzò l’uomo contemporaneo alle mete dello sviluppo equilibrato e sostenibile e difese, con costanza e coraggio, la pace in tutto il Mondo.
Allora questo rilevante ed importante avvenimento ecclesiastico, di elevato significato spirituale e storico allo stesso tempo, impone una attenta ed adeguata riflessione sull’attività pastorale di Papa Montini, partendo dall’analisi di alcuni atti e documenti del Concilio Ecumenico, delle Encicliche e della diplomazia stessa della S. Sede, la quale fece argine al conflitto vietnamita con una somma di iniziative fatte di perseveranza, scrupolo, persuasione e grande coraggio. Vediamo quindi gli aspetti fondamentali che collegarono tra loro i documenti del Sacro Concilio, le decisioni innovative che seguirono entro la complessa struttura organizzativa della Chiesa Cattolica e vediamo come si realizzò questo mutamento del modo di proporsi della Chiesa verso il Mondo contemporaneo, esaminiamo gli sviluppi attraverso i risultati di questo complesso rinnovamento della dottrina, spirituale e morale, che la Chiesa Cattolica produsse al suo interno per mezzo del Concilio Ecumenico, dalle prime proposte messe appena in atto da Papa Giovanni a quelle portate a compimento, con un ingente sforzo organizzativo e con forte spirito attuativo e realizzativo, da Papa Paolo VI.
L’autunno del 1965 è di cospicuo interesse storico, ai fini che interessano la ricerca, perché proprio in quel periodo ebbero luogo il viaggio di Papa Paolo a New York e la prima fondamentale allocuzione di un Capo della Chiesa Cattolica dalla Tribuna delle Nazioni Unite ed in quello stesso momento storico il Concilio Ecumenico produsse una cospicua ed importante quantità di documenti che i Padri Conciliari elaborarono e consegnarono alla riflessione pastorale, dopo avere approfondito e dibattuto la dottrina della Fede e la dottrina sociale della Chiesa.
Il Decreto sulla missione pastorale dei Vescovi nella Chiesa riguardò alcune disposizioni particolari sui doveri dei Vescovi, “veri ed autentici maestri della Fede, pontefici e pastori”. Attraverso il Concilio, vennero affermati il Governo Collegiale della Chiesa, il rafforzato ruolo dei Vescovi col “consenso del romano Pontefice”, e venne anche istituita una “più efficace collaborazione” col Santo Padre per mezzo dell’Organo collegiale dei Vescovi, chiamato Sinodo, che si riuniva periodicamente a Roma.
Essi infatti organizzavano le missioni ed i missionari nelle regioni e località in cui il clero si fosse dimostrato insufficiente e bisognoso di sostegno; avevano cura, con sollecitudine ed attenzione, delle diocesi in difficoltà, delle regioni colpite da calamità naturali, dei confratelli Vescovi, sottoposti nel corso dell’esercizio del Ministero a vessazioni, persecuzioni, calunnie, od addirittura posti in stato di detenzione.
Entro lo spazio dell’evangelizzazione dei popoli, dovevano particolarmente curare la diffusione della dottrina della Chiesa nella parte in cui essa conferiva il massimo rilievo al valore della persona umana, alla sua libertà e dignità; proclamare la famiglia unita, stabile, forte ed autorevole e dedicata alla formazione dei figli; guardare allo spazio per la società civile, con la sua organizzazione e le sue regole; promuovere il risalto dovuto ai beni del lavoro e del riposo, all’uso dei beni materiali in condizioni di povertà o di abbondanza; sollecitare la promozione in ogni caso di una equa e giusta distribuzione delle risorse e di una vera e propria filosofia dell’equo sviluppo tra tutti i popoli della Terra e di tutto quanto in generale ritenuto prezioso a formare o costituire un forte antidoto contro la propagazione dell’odio e della guerra (che infesta da sempre il Mondo), oppure in ogni caso giudicato indispensabile alla diffusione di quella cultura della pacifica convivenza tra tutte le Nazioni. Quello fu un chiaro intervento che irrobustì la formazione spirituale e morale dell’intera comunità umana.
Un altro interessante aspetto, approfondito sempre dai Padri del Concilio, fu contenuto nella Dichiarazione sull’educazione cristiana e suoi principi fondamentali. In essa, i temi dell’educazione dei giovani, come della formazione cristiana furono valutati alla luce degli sviluppi della vita moderna, nei settori economico, sociale e politico, con l’incremento della ricerca scientifica e delle scoperte dei nuovi mezzi di comunicazione di massa. A questo proposito il Sinodo conciliare collocò alcuni principi fondamentali dell’educazione cristiana, da introdurre, soprattutto, nelle scuole. Il valore preminente, in questo contesto, doveva essere il diritto di ogni uomo ad una educazione cristiana, aperta ad una convivenza fraterna, con gli altri popoli, “al fine di garantire la vera unità e la vera pace sulla Terra”.
Nella Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, la Chiesa cattolica non rifiutò di considerare tutti gli aspetti dei precetti e delle dottrine che pur divergendo in alcuni punti da essa, “non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini”. L’auspicio del Concilio fu che venissero superati dissensi ed inimicizie del passato, tra le diverse professioni di fede, nel comune interesse di edificare, per tutti, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà.
Il Sacro Concilio rese invece, in data 18-11-1965, alla piena disponibilità di tutti, altri due importantissimi atti, la Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione ed il Decreto sull’Apostolato dei laici. Detto Decreto sull’Apostolato dei laici indicò, introdusse i diversi e molteplici in quanto di natura spirituale, religiosa e di ordine morale motivi dell’apostolato laico. Quindi, in primo luogo, i laici dovevano immergersi nell’apostolato, con lo spirito giusto ed appropriato ad un atto di donazione, compiuto verso i fratelli. Lo spirito delle beatitudini doveva servire da guida alla missione dei laici, doveva illuminarla, con umiltà ed obbedienza, secondo la prescrizione del Signore: “Se qualcuno vuole venire dietro a me rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Pertanto, l’apostolato laico doveva essere esercitato evidenziando non solo “la competenza professionale, il senso della famiglia ed il senso civico” delle persone addestrate, ma anche le virtù dei rapporti sociali, “la correttezza, lo spirito di giustizia, la sincerità, la cortesia, la fortezza d’animo, virtù senza le quali non ci può essere neanche una vera vita cristiana”.
La congiunzione di carità ed amore, rinnovando il sacrificio della croce nell’Eucaristia e la solidarietà verso il prossimo, attraverso le opere, per mezzo della misericordia verso i poveri e gli infermi, costruisce allora quella carità che è l’ideale fondamentale, in grado di coinvolgere “tutti gli uomini e tutte le necessità”. Si tratta di un vincolo che richiama “prima di tutto i singoli uomini ed i popoli che vivono nella prosperità”, il tema cioè che, nel 1967, sarà esaurientemente approfondito da Papa Paolo nella fondamentale Enciclica Populorum Progressio.
Il Decreto sull’attività missionaria della Chiesa, dopo aver premesso il necessario annuncio della parola di Dio ed il conseguente realizzo del regno di Dio su tutti i popoli, richiamò i cardini fondamentali dell’attività missionaria e della Chiesa missionaria.
L’attività missionaria scaturiva direttamente dall’amore di Dio, cioè dalla carità, in quanto è proprio nel disegno di Dio l’unione dei figli in Cristo, l’assunzione, nel Figlio di Dio, della natura umana (“non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto dei molti”) (“a cercare ed a salvare quello che era perduto”) e l’effusione dello Spirito Santo sopra gli apostoli, affinché il Vangelo fosse diffuso tra i pagani e l’unione dei popoli vivesse “attraverso la Chiesa della Nuova Alleanza, nell’universalità della Fede” e nella ricchezza dei “diversi doni, gerarchici e carismatici”. Il valore della vita umana doveva costituire il legame stesso della solidarietà, per mezzo della carità. I Cattolici avevano ed hanno, quindi, il dovere di collaborare con i fratelli separati (“nel campo tecnico e sociale, come in quello religioso e culturale, non solo tra persone private…ma anche a livello delle Chiese e comunità ecclesiali”) e di promuovere la fratellanza universale tra tutti i popoli, vivendo “per Dio e per Cristo, secondo le usanze ed il comportamento del loro paese”, “coltivando un sincero e fattivo amor di patria, evitando ogni forma di razzismo e di nazionalismo esagerato…”.
GLI ATTI CONCLUSIVI DEL CONCILIO: LA COSTITUZIONE PASTORALE GAUDIUM ET SPES E L’ESORTAZIONE AI GOVERNANTI
Dallo storico evento, che ebbe luogo a Roma tra il 1962 ed il 1965, si può ben ricavare lo spirito creativo di tutto il Concilio Ecumenico Vaticano II che può essere sintetizzato nella ricerca che la Chiesa Cattolica intese avviare con tutti insieme, credenti e non credenti, al fine di costruire un nuovo Mondo.
La Costituzione Pastorale Gaudium et Spes, rivolgendosi a tutti, indistintamente, mise sul tappeto i problemi dell’uomo contemporaneo, le contraddizioni tra i risultati e le aspirazioni di un progresso, a volte sfrenato e privo di regole, sostanzialmente incapace di portare con sé una vera trasformazione, sociale e culturale tale, da avere poi riflessi anche sulla vita religiosa.
Lo sguardo che il documento – l’importante documento del Concilio – rivolse al Mondo, permise di constatare una carenza evidente di progresso spirituale. Ai profondi mutamenti in corso, di ordine sociale quali la “civilizzazione e l’emigrazione”, e di ordine psicologico, morale e religioso, quali un più acuto sviluppo della fede in Dio ed un contemporaneo distacco da essa, vissuto quasi come “esigenza di progresso scientifico o nuovo tipo di umanesimo”, si accompagnavano, ieri come oggi, contrasti ed egoismi, all’interno stesso delle Nazioni ed all’interno di gruppi collettivi ed economici.
Da qui, l’esigenza di curare, di medicare il cuore profondo dell’uomo, solcato, attraversato da “diffidenze ed inimicizie, conflitti ed amarezze, di cui l’uomo è ad un tempo causa e vittima”.
Come si potevano (o si possono) curare queste malattie del cuore dell’uomo? Con lo sviluppo – in tutti i campi – della dignità umana, per mezzo di un nuovo ordine politico, sociale ed economico, un nuovo ordine cioè in grado di mettere i benefici delle conquiste civili a disposizione di tutti. Questo fu lo spirito costitutivo del Peace Corps, e della proposta stessa contenuta nella seconda allocuzione all’O.N.U. del Presidente John Kennedy, in cui il Capo della Casa Bianca indicò l’Istituzione di New York come capace di “svolgere una più vasta funzione per contribuire a portare tutti gli uomini a beneficiare dei frutti della scienza e dell’industria moderna”. L’uomo detiene oggi in effetti, la scelta tra il migliore od il peggiore uso delle sue scoperte scientifiche e questo convincimento rende tuttora attuale quello stesso messaggio di John Kennedy che mise in guardia l’uomo di oggi esortandolo a migliorare la vita sul Pianeta, invece di distruggerla del tutto.
L’uomo è allora fortemente combattuto tra antitesi, fortemente marcate, e questa divisione, all’interno del cuore, porta divisioni e discordie, anche a livello della società in cui vive. Alle più importanti istanze su cosa sia veramente l’uomo, sul significato della malattia o della morte e su quello che seguirà dopo la morte fisica, solo la fede in Dio è in grado di esprimere le attese risposte. Il compito fondamentale del Concilio Ecumenico Vaticano II, fu allora quello di voler far conoscere a tutta l’umanità il mistero dell’uomo che, attraverso una migliore conoscenza di Dio, può cercare le soluzioni più appropriate ai problemi del nostro tempo. I grandi valori – che pure sono donati da Dio all’uomo – “sono oggetto della corruzione del cuore dell’uomo” e, pertanto, “hanno bisogno di essere purificati”. L’uomo trae dall’interno della propria anima, la propria dignità e la propria vocazione, dato che non fu creato “a viver come bruto”. La prima dignità da esaminare è riposta nell’omaggio che si deve fare al proprio corpo, non permettendo che esso si renda “schiavo delle inclinazioni del cuore”, ma obbedisca al dettato della propria coscienza, “dove la voce di Dio risuona nell’intimità”.
L’ascolto della voce della coscienza orientava l’uomo verso il bene. Questa introspezione avvicinava l’uomo a Dio e gli permetteva di superare gli aspetti negativi della sua esistenza, per esempio l’ateismo. Da tutto questo travaglio, si sviluppò e si diffuse una Fede piena, consapevole che la carità verso i poveri non potesse che essere esercitata nella giustizia e nell’amore. Questa piena formazione della comunità umana, avviata al fraterno dialogo tra gli uomini, dimostrava di conseguenza, sollecitudine e rispetto anche verso la piena dignità spirituale, che doveva regolare anche la vita comune e sociale.
Promuovere lo sviluppo armonico della persona, aiutava e favoriva anche il perfezionamento della struttura sociale in cui la persona stessa operava, considerato che persona e società “sono interdipendenti”. L’instaurazione di un clima collaborativo, all’interno di una struttura sociale, serviva a promuovere i diritti della persona umana, tutelando anche la comunità dai pericoli (e dalle ricadute negative) rappresentati dalla superbia e dall’egoismo.
L’ordine sociale doveva garantire il bene comune (cioè tutto quello che poteva servire a condurre un livello di vita dignitoso, con i beni primari fondamentali) e, con chiaro riferimento ai significativi concetti della Pacem in Terris, “deve restare fondato sulla verità, realizzarsi nella giustizia, vivificarsi nell’amore, trovare equilibrio nella libertà”. Il rispetto della persona umana esigeva la tutela, in ogni comunità umana, non solo – come è ovvio – da ogni forma di violenza, ma anche dalla tortura e dalla violenza psicologica e dalle degradanti condizioni di lavoro. Esigeva anche il rispetto della persona, in presenza di errori, dato che “occorre separare l’errore dall’errante”, secondo il pieno insegnamento giovanneo.
La tutela della pace sociale ed internazionale imponeva anche che fosse posta fine, non solo alle varie forme di discriminazione (per razza, per sesso, condizione sociale, etc…) ma anche alle diseguaglianze economiche e sociali, all’interno di una medesima comunità o tra comunità diverse. Il fondamento di questo principio – così come pure quello di solidarietà, molto approfondito nella importante Enciclica di Papa Montini, la Populorum Progressio del 1967 – imponeva il superamento dell’etica individualistica e conferiva molto rilievo ai poteri pubblici e privati che si proponevano il miglioramento delle condizioni di vita delle persone. Ogni gruppo sociale doveva creare una comunità (secondo il titolo di un’opera letteraria fondamentale, del grande Leader della non-violenza, M. L. King jr. “Dove stiamo andando: verso il caos o verso la comunità?”) affinché in essa i cittadini potessero reperire “valori, capaci di attirarli e di disporli al servizio degli altri”, contribuendo ad erigere una cultura della solidarietà.
Il valore dell’attività umana rendeva (e rende sempre) l’uomo usufruttuario dei beni terreni, con maggiore responsabilità. L’attività umana è certamente opera dell’uomo ed è rapportata all’uomo. Da questa premessa, seguì un logico ragionamento che il documento del Concilio, sintetizzò in questi termini: “Se l’uomo vale più per quello che è, che per ciò che ha, più che ai progressi tecnici, in sé stessi, occorre avere riferimento all’ordine umano dei rapporti sociali”. La ricerca scientifica, che non si opponeva alla fede era quella che procedeva nel pieno rispetto delle norme morali. La “superbia e l’eccesso di amore verso sé stessi”, portavano “all’aumento della potenza umana”, con conseguenze catastrofiche per il genere umano. Nella vita di tutti i giorni dovevano prevalere, pertanto lo spirito di carità e la comunione fraterna. Perciò, la Chiesa contemporanea a questo scopo, cioè alla costruzione della pace nella vita di tutti i giorni, non poteva e non può non offrire a tutti un indirizzo, ben consapevole che l’unica tutela della dignità umana non possa che risiedere nel Vangelo, perché solo il Vangelo “onora come sacra la dignità della coscienza e la sua libera decisione”.
Tutto quello che costituiva la cultura aveva un “posto importante nella vocazione integrale dell’uomo”. Pertanto, se da un lato la cultura doveva perseguire lo scopo di elevare spiritualmente la persona umana, in modo tale che con “le facoltà dell’ammirazione, dell’intuizione, della contemplazione, abbia un giudizio personale e coltivi il senso religioso, morale e sociale”, dall’altro lato, provenendo “dalla natura ragionevole e sociale dell’uomo”, doveva godere della libertà di svilupparsi in modo autonomo, rispettando i “diritti della persona e della comunità”. I pubblici poteri dovevano garantire che il diritto alla fruizione di una cultura libera fosse assicurato a tutte le componenti di una nazione, e su scala mondiale, “senza distinzione di razza, di sesso, di nazione, di religione o di condizione”. La diffusione della cultura aiutava il genere umano a “coltivarsi e ad aiutare gli altri”. È un aspetto importante, quello della diffusione della cultura nel mondo, attraverso le Istituzioni dell’O.N.U. e non solo perché anche il Presidente John Kennedy ebbe occasione di soffermarsi su di esso nell’allocuzione all’O.N.U., del settembre 1963, nella parte in cui si dichiarò a favore di una vera e propria competizione mondiale, per le idee e la cultura.
La Costituzione apostolica passò poi in rassegna i problemi del mondo del lavoro e le principali questioni circa l’organizzazione produttiva. In primo luogo, emersero diseguaglianze e sperequazioni nella distribuzione della ricchezza all’interno di uno stesso Paese e tra le varie Nazioni. Già la S. Sede, in occasione dell’Enciclica Mater et Magistra, si era occupata di questo grave fenomeno, distorsivo dell’ordine produttivo, definendolo “un ordine economico, radicalmente sconvolto”. In quel documento si auspicò il superamento della regola e della logica del mercato e della legge del più forte, l’inquadramento del rapporto di lavoro in un ambiente di solidarietà tra imprese e lavoratori, in cui il lavoro, espressione della persona umana, fosse considerato secondo giustizia ed equità.
D’altro canto, proprio gli squilibri economici tra i vari settori produttivi, all’interno di una comunità, o tra comunità diverse, – come riconobbe la stessa Costituzione apostolica – potevano condurre a “contrapposizioni tali da mettere a repentaglio la pace del mondo intero”, come è avvenuto anche di recente, in determinate zone della Terra. I rapporti economici dovevano allora essere al servizio dell’uomo e dei suoi bisogni fondamentali: riaffermando tale sacrosanto principio, la Costituzione intese collocare i principi economici entro l’ordine morale, voluto da Dio. Se, da un lato, la Costituzione enunciò chiaramente i principi di fedeltà professionale al lavoro, quali l’integrità e l’onestà ed il diritto al lavoro dall’altro, insieme con l’Enciclica giovannea riconobbe la necessità della giusta ed equa retribuzione ed un giusto contemperamento tra le esigenze delle condizioni generali economiche (e delle imprese) e le esigenze del bene comune (dei lavoratori e delle comunità politiche) affinché, allo sviluppo economico si potesse collegare pure lo sviluppo sociale.
La Chiesa, nel doppio ruolo di fondamentale indirizzo verso i principi morali, nell’attività della Comunità politica, ma anche la Chiesa che invoca la vera pace, fondata sull’amore e la giustizia. Attraverso le pagine del documento del Concilio, si può cogliere l’estrema attualità della Gaudium et Spes, specialmente nella parte in cui elencò un vero e proprio metodo della pace, cioè la Chiesa, dispensatrice della pace. È necessario ritornare su questo appello del Concilio alla Pace nel Mondo, per approfondire tanto la natura del concetto stesso di pace, quanto la disumanità della guerra. Richiamando il Presidente scomparso, l’importante atto conclusivo del Concilio, riecheggiò il tono e lo spirito delle allocuzioni all’Università di Washington (10-06-1963) (“La pace non si può ridurre ad equilibrio delle forze, né effetto di dominazione”) ed all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (20-09-1963) (“La pace non è mai qualcosa di raggiunto una volta per tutte, ma un edificio da costruirsi continuamente”) ed ovviamente, i contenuti e la filosofia delle tre importanti Encicliche giovannee e di quell’invocazione all’amore tra gli uomini, oltre la giustizia, cioè le fondamentali motivazioni della Convocazione del Concilio Ecumenico, da parte di Papa Giovanni e dell’auspicio alla concordia, unità e giusta pace.
D’altra parte, la severa condanna della guerra, “con fermezza e senza esitazione, per le devastazioni che ne deriverebbero nel resto del mondo e per gli effetti letali” dell’uso delle armi moderne fu del tutto in linea col pensiero di Papa Roncalli ed il giudizio del Concilio fu un logico seguito (“delitto contro Dio e contro la stessa umanità”) rispetto al ragionamento papale, esposto nella Pacem in Terris. Vero è che il documento trattò della possibilità che si facesse ricorso alle armi (e, quindi, alla violenza e guerra) per le ragioni della legittima difesa, secondo quanto previsto dall’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, ma questa ipotesi o possibilità, deve far parte sempre dello spirito e dei principi della Carta (art. 1 ed art. 2, comma 4, della Carta di Costituzione dell’O.N.U.) e non deve opporsi ad essi. Pertanto, la richiesta della legittima difesa in diritto internazionale deve essere ritenuta una extrema ratio, in quanto lo scopo precipuo, il fine essenziale dell’Organizzazione è il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, con misure di rimozione delle aggressioni e delle violazioni della pace.
Partendo da questo dato inoppugnabile, il Presidente John F. Kennedy, nella seconda allocuzione all’O.N.U., fece riferimento, ad “azioni di polizia” internazionale, ma certo, sempre accompagnate “da adeguate disposizioni per una soluzione pacifica” e fu a questa ipotesi che intese riferirsi l’atto conclusivo del Concilio, cioè i limiti assai eventuali e ristretti, entro i quali l’O.N.U. può autorizzare la legittima difesa.
Quanto poi alla sorta di dispotismo economico, di cui si trattò nella Mater et Magistra, che rendeva le Nazioni egoiste l’una verso l’altra, ed era anche causa, in ultima analisi, di violenze, ingiustizie e guerre, anche per le fonti di energia, si può arrivare ad una collaborazione tra le Nazioni con l’abbassamento delle barriere doganali ed i Trattati, istituiti a questo scopo. Anche su questo tema, quindi, la Costituzione del Concilio riprese e valorizzò il grande messaggio presidenziale del 20 settembre 1963 alle Nazioni Unite. L’8-12-1965, come atto conclusivo del Concilio, Papa Montini, riassunse in un breve messaggio, indirizzato ai Potenti della Terra lo spirito del Concilio Ecumenico, il fondamentale ruolo della Chiesa Cattolica e le grandi motivazioni morali e di Fede che stavano alla base della missione e che costituivano, anche in quel momento, la ragion d’essere di quell’imponente sforzo organizzativo, perfettamente riuscito, di aver potuto riunire a Roma, i Padri Conciliari, convenuti da ogni parte del Mondo.
Il Beato Papa tracciò una chiara linea di separazione, tra le due sfere d’intervento, tra quella che fu giustamente ritenuta, dal Sommo Pontefice, una vera missione verso l’umanità, missione, esclusivamente spirituale e morale della Chiesa Cattolica, da un lato, e missione temporale degli organizzatori e reggitori, del potere politico ed amministrativo, dall’altro. La Chiesa riconobbe e promosse il potere civile delle società politiche – questo è il senso dell’allocuzione – ma alla condizione che le Società politiche riconoscessero che “solo Dio è la sorgente dell’autorità ed il fondamento delle leggi”, e degli altri strumenti di governo di una società civile, perché solo Dio è “la sorgente dell’Autorità ed il Fondamento delle leggi civili, l’artefice dell’ordine e della pace sulla Terra, Colui che santifica il lavoro e la sofferenza dell’uomo…”. La Chiesa chiedeva di poter esercitare il Ministero sacerdotale e papale, in piena libertà di “credere e predicare la fede, di amare Dio e servirlo…di diffondere la buona novella del Vangelo della Pace…”, scopo preminente alla base della convocazione a Roma del Concilio Ecumenico. La Costituzione apostolica quindi basilare per il futuro della comunità ecclesiale e ricca di umanità, spiritualità, umiltà, Fede e devozione cristiana.
Come emerge dall’esame della documentazione prodotta dal Concilio Ecumenico, l’obiettivo per il quale si era molto impegnato il Santo Padre, Beato Paolo VI, era stato certamente raggiunto: l’aspirazione al rinnovamento della Chiesa era infatti divenuta la meta comune dei Padri riuniti a Roma e del Capo stesso della Chiesa universale. Il passo successivo richiedeva un compito ancora più gravoso: l’impegno della Chiesa Cattolica di rinnovare a sua volta il modo di pensare e di agire dell’umanità nel suo complesso. La chiave per poter raggiungere questo fondamentale approdo era contenuta nel messaggio stesso della S. Sede, segnatamente nel richiamo posto alla tutela della dignità dell’uomo, come singolo componente della Società, ovvero dell’uomo visto nella figura collettiva e compreso nella forma costituzionale di Nazione. Lo abbiamo visto, illustrando via via le diverse promulgazioni delle varie dottrine, approvate dal Sacro Concilio. Per esempio, nel Decreto sulla missione pastorale dei Vescovi, abbiamo posto in evidenza l’insieme degli impegni programmatici della Chiesa in quella che era la disciplina della missione pastorale, all’atto della realizzazione effettiva (e pratica) nell’area della composizione specifica della singola società civile, e nella Dichiarazione sulle relazioni con le religioni non cristiane, abbiamo notato l’impegno propositivo di superare le divergenze, in nome della verità che illumina tutti gli uomini, mentre nel Decreto sull’attività missionaria, la motivazione determinante risiedeva nello spirito di carità.
Un esempio invece dell’impegno della Chiesa Cattolica per la trasformazione della società esterna, secondo i canoni spirituali e morali approvati dal Concilio, fu introdotto nel Decreto sull’educazione cristiana e sul modo della esplicazione di essa, aperta alla convivenza fraterna con gli altri popoli.
Nel Decreto sull’apostolato dei laici, il modo applicativo doveva assumere i caratteri dell’atto di donazione verso i fratelli. Nella Costituzione Pastorale Gaudium et Spes la Chiesa si rivolse all’uomo contemporaneo allo scopo di pungolarlo e sollecitarlo sui grandi problemi del nostro tempo, come l’accesso alla cultura organizzata, generalizzato per tutti, lo sviluppo sostenibile, la pace, l’esortazione fraterna all’uomo di oggi affinché si adoperasse a costruire un nuovo ordine fondato sulla disponibilità, sulla concordia e sulla reciproca fiducia.
Ma come si poteva immaginare una conversione umana del genere con l’incalzante, diabolica perversione che aveva assunto il conflitto in Vietnam? Johnson aveva probabilmente promesso ai generali americani alla fine del 1963, che solo una volta eletto alla Casa Bianca, nel 1964, avrebbe potuto concedere loro la tanto auspicata guerra in Indocina. “Nel 1965, Hanoi aveva attaccato per la terza volta in poche settimane installazioni americane…vennero decisi bombardamenti massicci contro il Nord…Hanoi non diede risposta alcuna alla offerta di un credito di un miliardo di dollari (dagli Stati Uniti). Di colpo gli effettivi del corpo di spedizione vennero aumentati fino a raggiungere i 275.000 uomini nel luglio del 1965, i 448.000 in dicembre (1965) ed i 542.000 nel giugno del 1966. Inoltre, il 9 giugno 1965, il generale Westmoreland, comandante in capo delle forze americane, era stato autorizzato ad impiegare le sue truppe per sostenere l’esercito sud-vietnamita sottoposto ad attacco, perché altri contingenti di riserva non erano disponibili”.[1] Tra il 1965 ed il 1966, gli Stati Uniti furono in piena escalation in Vietnam, Johnson e McNamara e Taylor (che nel frattempo era divenuto ambasciatore americano a Saigon) erano fermamente convinti che l’unica via d’uscita fosse quella di vincere militarmente la guerra, con sempre più massicci bombardamenti e con sempre più numerose truppe di terra “per combattere la sovversione comunista cinese”.
Lungo la linea affermata dal Concilio Ecumenico, la S. Sede poteva opporre alla guerra soltanto invocazioni, preghiere e suppliche, ma anche Encicliche ed iniziative politiche. E furono tutte queste azioni promosse insieme che lentamente, ma inesorabilmente, convinsero l’opinione pubblica mondiale della necessità di isolare gli Stati Uniti nella loro terrificante e distruttiva guerra. E così infatti avvenne e tutti i propugnatori americani del conflitto vietnamita furono costretti a ritirarsi dalla scena politica.
LE ENCICLICHE CHRISTI MATRI E POPULORUM PROGRESSIO
In questa prospettiva di opposizione al catastrofico e distruttivo intervento armato americano in Indocina, Papa Montini elaborò e preparò due tra le più importanti Encicliche del suo Ministero Petrino, l’Enciclica Christi Matri del 15 settembre 1966 e la Populorum Progressio, promulgata il 26 marzo del 1967. Facciamo rivivere le linee essenziali di entrambe.
Certamente esse vanno inquadrate e valutate in quel particolare momento storico, dell’incalzante guerra indocinese, in cui la potenza distruttiva armata lasciava filtrare chiaramente la netta ripresa della corsa agli armamenti tra le due super-potenze, almeno nel tempo trascorso dal drammatico e tragico attentato di Dallas, in cui il Presidente degli Stati Uniti John Kennedy era caduto vittima di una complessa manovra determinata da una alleanza tra antagonisti politici e complessi e vasti interessi di potere, messi insieme da tutti coloro che si opponevano alla riduzione drastica degli armamenti, propugnata appunto dal 35° Capo della Casa Bianca.
A questi motivi di turbamento per il Papa Paolo VI, si venivano ad aggiungere anche gli altri problemi che vedevano nei nazionalismi, razzismi, antagonismi appunto in politica, occasioni di divisione tra le nazioni ed all’interno di esse. Si trattava certamente di una opaca e forse anche oscura cornice di presenti tragedie, di rovine, lutti e pericoli incombenti, ed il Capo della Chiesa Cattolica intese ravvivare la speranza dell’umanità, afflitta ed indifesa, riaffermando che nulla era perduto e che gli uomini potevano sempre contare sulla verità e sulla grazia di Gesù Cristo. Richiamò allora l’orazione apostolica dell’anno precedente alle Nazioni Unite e ripresentò lo spirito della preghiera apostolica del Santo e Venerato predecessore per la crisi di Cuba, cioè applicandola al conflitto vietnamita, riaffermò verso i governanti la necessità di fare ogni sforzo per scrutare la loro coscienza, “per addivenire a trattative leali…per stabilire una pace, fondata sulla giustizia e sulla libertà degli uomini…sui diritti delle persone e delle comunità”, perfettamente coerente con i principi della Pacem in Terris. E, poiché la pace doveva essere ritenuta ed apprezzata come un dono di Dio, occorreva rivolgersi a Dio per invocarla, per mezzo dell’ausilio della Madre di Gesù, Maria, Madre di Dio e Madre della Chiesa, secondo la proclamazione stessa del Concilio Ecumenico Vaticano II. Per mezzo di questa Enciclica, Christi Matri, Papa Montini istituì suppliche per la pace, nel mese di ottobre, dedicato alla Madonna del Rosario, ed anche per la libertà religiosa, e solo per quell’anno 1966, stabilì che in tutto il Mondo, il 4 ottobre fosse “il giorno di impetrazione per la pace”.
L’Enciclica che il Beato Papa Paolo VI° promulgò il 26 marzo del 1967 e nella solennità della Festa di Pasqua di Risurrezione, non a caso e certamente con ogni merito è considerata la più importante tra le Encicliche di Papa Montini. Ed appare altresì oggi come un fatto estremamente significativo la scelta che fu fatta per la pubblicazione di essa nella ricorrenza di Pasqua del 1967, quarto anno del Ministero Petrino del Sommo Pontefice, perché quella fu l’Enciclica che si propose di annunciare all’umanità lo sviluppo solidale del Pianeta, così come la Festa di Pasqua è da sempre la Festa dell’umanità intera che si riscatta e si risolleva, sull’esempio e nel segno della Risurrezione del Signore.
In questo tanto importante e basilare documento ecclesiastico, la Chiesa, rinnovata e rinvigorita dalle conclusive decisioni del Concilio, ritornò – se così si può affermare – ancora di più all’originario spirito del Vangelo, sottolineandone i caratteri fondamentali, quali la contemplazione di Dio nel prossimo, l’intervento sulla questione morale della fame del mondo, il carico dei problemi del sottosviluppo e delle difficoltà sociali dei Paesi del Terzo Mondo, la sollecitudine verso i popoli della Terra per un’azione radicale di aiuto e solidarietà per quella che doveva essere la svolta della storia dell’umanità.
Anche quest’ultima, come le precedenti Encicliche, in essa richiamate, a partire dalla Rerum Novarum di Papa Leone XIII°, ricollocò la questione sociale alla luce del Vangelo, ma pose anche la questione sociale al vertice dei problemi mondiali, entro il solco già pienamente approfondito delle eminenti Encicliche Ad Petri Cathedram, Mater et Magistra e Pacem in Terris, del Santo e Venerato Papa Giovanni XXIII°.
E proprio il grido di dolore di Papa Montini (“i popoli dell’opulenza interpellati dai popoli della fame in maniera drammatica, la Chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello”) costituì infatti la base affinché il pensiero papale si sviluppasse e confluisse nella Dottrina sociale della Chiesa in modo tale che entrambi esprimessero insieme lo spirito dei “Nuovi Tempi”.Il Santo Padre aveva già tutta la vasta esperienza, acquisita dalle visite compiute all’estero negli anni in cui aveva retto da Cardinale l’Arcivescovado di Milano e poi nel periodo successivo da Capo della Chiesa universale, che gli permise lo sviluppo di tutti gli argomenti fondamentali al fine di impostare la complessa opera, e poi decidere di istituire la Commissione per la promozione e lo sviluppo dei popoli poveri, cioè la Commissione Iustitia et Pax, vero e proprio “avvocato in soccorso dei popoli poveri”.
Il Progresso all’interno di ciascuna Nazione – e non solo tra le Nazioni – la tutela dal bisogno, l’assistenza sanitaria e l’occupazione stabile, l’istruzione e l’indipendenza politica, ma anche quella sociale ed economica, in una parola la piena espansione umana in dignità ed in libertà, furono tutti i chiari indirizzi dell’Enciclica. Non tutto era da considerare negativo nella colonizzazione e nel colonialismo dato che le strutture ereditate dai popoli colonialisti erano servite ed erano utili, ma si registrava un aggravamento e non una attenuazione nel livello di vita dei Paesi poveri e le differenze, tra i Paesi ricchi e quelli poveri, sul piano dei conti, importazione-esportazione, non erano affatto equilibrate. Anche nell’esercizio del potere all’interno dei popoli poveri, la chiara carenza di carattere politico e la formazione di oligarchie facevano crescere le disparità tra i vari gruppi ed anche all’interno di ciascuna Nazione. D’altro canto, il venire meno dei vecchi sostegni tipici, caratteristici delle passate istituzioni e tramontati con la fine dell’epoca colonialista, senza l’acquisizione dei nuovi, lasciava pericoloso spazio alle agitazioni sociali, mentre l’annunzio del Vangelo richiedeva l’assistenza dell’opera missionaria, con la costruzione di Chiese, Ospedali, Centri di Assistenza, Scuole ed Università, la promozione delle istituzioni sociali, e la messa a capo di uomini, al servizio della Carità.
Quello che l’Enciclica prospettò ai poteri politici fu un’azione d’insieme su tutti gli aspetti economici, sociali, culturali e spirituali per una visione globale dell’uomo e dell’umanità, sempre però nella diversità delle rispettive aree di competenza, la Chiesa nella specifica opera di salvare e servire l’uomo.
Il fine della Chiesa proposto fu quindi la promozione dello sviluppo dell’uomo e dell’umanità intera, nelle componenti spirituale, morale, fisica ed economica e l’aiuto all’uomo concesso pertanto affinché progredisse in umanità. Con questo complesso di attitudini, pienamente sviluppate, l’uomo poteva allora vivere in una dimensione nuova, un umanesimo trascendente (verso Dio) ed una solidarietà universale (verso i fratelli), cioè doveri verso Dio e doveri verso i fratelli. L’acquisizione dei beni non doveva condurre l’uomo alla avarizia ed a far prevalere l’interesse a danno degli altri valori morali. L’avarizia veniva ritenuta infatti come “la forma più evidente del sottosviluppo morale”.
La meta per l’uomo doveva essere il vero sviluppo, cioè il passaggio da condizioni meno umane a condizioni più umane. L’Enciclica fissò alcune precise indicazioni affinché lo sviluppo dell’uomo fosse conforme al metodo della solidarietà universale, e precisò le condizioni ed i limiti, dell’uso dei beni materiali e la funzione del lavoro.
La fruizione dei beni doveva avvenire in modo da essere accessibile a tutti (uomini e popoli) in modo equo, secondo le regole della giustizia e della carità. La proprietà non era un diritto assoluto ed incondizionato, ma doveva essere esercitato in modo da non essere in contrasto con l’utilità sociale, principio contenuto anche nella Costituzione Italiana del 1948 e nelle Encicliche di Papa Roncalli, Ad Petri Cathedram e Mater et Magistra. In questo uso, sfrenato e smodato, della proprietà e del commercio dei beni materiali, rientravano nella piena valutazione negativa dell’Enciclica, il trasferimento dei redditi all’estero e le speculazioni in generale, in quanto atti di sottrazione dei beni, da servire invece per l’uso di tutti. In merito all’attività del capitalismo imprenditoriale il giudizio ecclesiastico fu senza dubbio positivo, ma l’Enciclica condannò senza appello il liberismo sfrenato e l’imperialismo economico, che rifiutavano di porre l’economia al servizio dell’uomo, lungo il solco aperto dalla Mater et Magistra, del 1961.
Il lavoro, voluto e chiesto da Dio evidenziava l’impronta spirituale di Dio e doveva servire ad unire gli uomini e rispettare l’ambiente. Il lavoro doveva sviluppare la coscienza professionale, il senso del dovere, la carità verso il prossimo, e tutto questo presupponeva però che esso «fosse eseguito con giustizia e retribuito con equità», come raccomandato nell’Enciclica giovannea.
Le riforme da attuare dovevano essere coerenti ed in armonia con la comunità che le doveva accogliere, applicandole in concreto e con le risorse a disposizione. In questa affermazione fu senza dubbio contenuto anche lo spirito della Alleanza per il Progresso, il Programma di aiuto ai popoli sottosviluppati che il Presidente John F. Kennedy introdusse nel 1961, appena giunto alla Casa Bianca. Lo scopo della Populorum Progressio (come anche dell’Alleanza per il Progresso) fu quello di eliminare le grandi ingiustizie nella distribuzione delle risorse (considerate nell’Enciclica “ingiurie alla dignità umana”) in quanto l’iniziativa imprenditoriale privata senza l’intervento e le scelte dei poteri pubblici era ritenuta, da sola, insufficiente ad assicurare lo sviluppo al servizio dell’uomo. A questo punto dell’Enciclica vi è una dichiarazione di favore per l’economia mista, in cui il potere pubblico serve a raddrizzare e correggere gli squilibri provocati dal liberismo economico. Già Papa Giovanni, nell’importante Enciclica, Mater et Magistra, sul medesimo tema, aveva esposto un orientamento verso la cogestione, cioè l’associazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, ma Paolo VI fu per la cogestione a livello politico delle grandi scelte dell’impresa, quelle che avevano influenza sulla politica generale dello Stato, e che dovevano essere necessariamente dibattute tra l’iniziativa privata, il potere pubblico e le associazioni sindacali. Lo sviluppo economico sostenibile doveva essere quello che impediva “le disuguaglianze, combatte le discriminazioni, libera l’uomo dalle sue servitù, lo rende capace di divenire responsabile del suo miglioramento, materiale, morale e spirituale”.
La tecnocrazia, l’economia e la tecnica inimmaginabili se non in rapporto all’uomo che devono servire. Il concetto è una esplicitazione di quella cultura conforme alla natura, di cui Papa Giovanni XXIII° aveva già delineato i tratti essenziali nella sua Enciclica sociale. La soddisfazione della fame di cultura dell’uomo e la lotta all’analfabetismo come “fattore” di coesione sociale che dovevano rendere le Nazioni e gli uomini “più sviluppati, dal punto di vista economico”, certamente, ma anche l’interscambio culturale, tra le Nazioni, l’incontro delle idee, nell’ambito della competizione pacifica, il “libero commercio delle idee” di John F. Kennedy, nella seconda allocuzione all’O.N.U., tutte queste così insieme rendevano possibile la crescita morale e sociale dell’uomo.
I riferimenti alla famiglia, come luogo “di armonizzazione dei diritti delle persone”, ed alla vita sociale con la crescita demografica, libera e responsabile e senza contraccettivi e la libera assistenza sindacale nei rapporti di lavoro, trovavano corrispondenti riferimenti nella dottrina giovannea, Ad Petri Cathedram e Mater et Magistra. La prima parte della riflessione di Papa Paolo si concluse con l’augurio che l’uomo non fosse tentato dall’impulso (o dal desiderio) di un umanesimo irrazionale dell’uomo egoista, dell’uomo contro l’esistenza di sé stesso, ma fosse sollecitato invece dallo spirito dell’uomo con l’uomo, dell’uomo a favore dell’uomo.
In sostanza un umanesimo impenetrabile, “chiuso, insensibile ai valori dello Spirito ed a Dio che ne è la fonte”, è inimmaginabile, improponibile, se si vuole realizzare un umanesimo vero, cioè “aperto verso l’Assoluto”.
Da queste importanti premesse, si snodò e sviluppò la seconda parte dell’Enciclica di Papa Montini da cui si diramò la struttura di tutto il ragionamento papale, cioè l’organizzazione dell’incontro tra le Nazioni e la fondazione – per mezzo di questo incontro – di una cooperazione, equilibrata, equa, stabile e sicura, in tutto il mondo. Ripartendo sempre delle grandi Encicliche giovannee, Mater et Magistra e Pacem in Terris, Voce Disarmo, il Pontefice enunciò il programma di comunione tra tutte le Nazioni, esprimendo un appello fraterno, pressante, ineludibile a questi tre specifici doveri: la solidarietà, la giustizia sociale e la carità universale, cioè, secondo il Beato Papa, “la promozione di un mondo più umano per tutti, un mondo in cui tutti abbiano qualcosa da dare e da ricevere…”. Il Sommo Pontefice era giunto al convincimento che non si potesse vincere la lotta alla fame nel mondo, senza un programma organizzato ed accettato da tutte le Nazioni, e che la lotta stessa alla fame non potesse limitarsi a far fronte solo alle periodiche carestie. Dopo aver reso omaggio alla memoria del Presidente della “Nuova Frontiera”, evidenziando e sottolineando anche aspetti del programma della Casa Bianca, come il Peace Corps (“lasciare il proprio paese, se è giovane, per aiutare questa crescita delle giovani nazioni”) (“normale che un paese evoluto si preoccupi di formare educatori, ingegneri, tecnici, scienziati, destinati a mettere scienza e competenza al loro servizio”), il Beato Papa entrò nel vivo della formazione dell’Enciclica, prefigurando una migliore organizzazione del Mondo, con uno sviluppo solidale di ciascuna comunità, con la regola della cessione del superfluo ai Paesi poveri, secondo sistemi organizzati o metodi concertati e non occasionali (tali da prevedere esigenze future, cui dover far fronte), un programma di “valorizzazione dell’uomo”, secondo le stesse parole del Papa, con l’istituzione di un Fondo – e qui sta la grande novità della Populorum Progressio – alimentato da una parte delle spese militari, per far fronte allo sviluppo, equo e solidale, dei Paesi più poveri.
La gestione degli accordi (bilaterali o multilaterali) tra le Nazioni andava bene, a condizione però che venisse inquadrata in un programma delle Nazioni Unite e separata da qualunque spirito od intendimento neo-coloniale secondo gli auspici per (“i popoli liberi di scegliere il futuro, senza discriminazione od imposizione, senza coercizione o sovversione”, “un programma di produttività agricola e distribuzione delle risorse, analogo al programma Food for Peace”) enunciati già nel messaggio-indirizzo presidenziale del Settembre 1963, dalla Tribuna dell’O.N.U.
L’elaborazione di programmi di aiuti economici, con cessioni e prestiti ad un tasso minimo d’interesse o senza tasso stesso di interesse, al fine di “instaurare una compartecipazione degli uni con gli altri, in un clima di eguale dignità, per la costruzione di un mondo più umano …. la pace civile nei paesi in via di sviluppo è la pace del mondo”, costituì nell’Enciclica papale la pace come comune obiettivo di tutti i Paesi, la pace in generale e sempre.
La costruzione di questo assetto mondiale più umano di cui il Papa sviluppò, con chiarezza, gli esatti contenuti iniziò a procedere partendo quindi dalla fissazione della parità delle condizioni d’inizio del commercio internazionale, cioè da quelle che furono nuove valutazioni sugli scambi tra le Nazioni, la grande intuizione e la grande innovazione, del Sommo Pontefice bresciano. Esse interessarono la dottrina sociale della Chiesa e furono queste le aspirazioni di riequilibrio dell’economia internazionale che andavano al di là delle ormai superate condizioni poste dal libero scambio. Infatti il Papa introdusse nell’Enciclica la questione fondamentale del libero scambio: in esso infatti i paesi industrializzati potevano esportare manufatti, (con aumento di valore assicurato, grazie al progresso tecnico) ed i paesi poco sviluppati, potevano cedere materie prime, sempre soggette alle variazioni di prezzo ed al rischio di essere penalizzate, nel corso dello scambio, subendo il ruolo di contraente debole entro la stessa contrattazione. Occorreva allora mettere in discussione il principio della “libertà pura” degli scambi, che conduceva a risultati iniqui.
Quello che nelle precedenti Encicliche, a decorrere dalla Rerum Novarum e proseguendo via via fino a giungere alle grandi Encicliche giovannee, era stato affermato come il sacrosanto principio del giusto salario individuale nella contrattazione lavorativa, ora, nello scambio internazionale, doveva trovare cittadinanza col giusto prezzo, caratterizzato appunto dalle esigenze della giustizia sociale. Come? Con delle correzioni al sistema del commercio internazionale, con una politica finanziaria e fiscale, in grado di “ridare alle industrie concorrenti, disugualmente prospere, condizioni di ristabilita competitività. Occorreva ridefinire la giustizia sociale nel commercio internazionale, una volta divenuto umano e morale, con la parità di partenza nelle trattative e nelle discussioni iniziali, cioè con l’apertura di un maggiore spazio di libertà e democrazia, nelle relazioni internazionali. Si imponeva il superamento di determinati problemi, certi nazionalismi esasperati, visti generalmente nelle Encicliche di Paolo VI° e del Santo e Venerato predecessore Papa Giovanni, come fattori negativi che impedivano la messa in comune delle energie e dei mezzi finanziari, “onde realizzare programmi di sviluppo e di scambio commerciale e culturale” (Paolo VI°), e come occasione di ostacolo alla comunione fra comunità politiche in quanto non vi potrà essere la superiorità di una comunità politica su una altra comunità politica (Papa Giovanni). Allo stesso modo, non trovavano ragion d’essere le discriminazioni razziali, per motivi generali spirituali, meglio precisati da Papa Roncalli, nella Pacem in Terris (“espressione della dignità umana, in tutti gli uomini, il vicendevole riconoscimento degli stessi diritti, cui corrisponde analoga espressione degli stessi doveri”) e dallo stesso Papa Montini, il quale vide nell’ingiustizia del settarismo, “un pericolo per la pace civile, entro la medesima comunità, un ostacolo alla collaborazione tra nazioni sfavorite, un fermento di divisione e di odio all’interno degli stessi Stati…». Come era possibile allora superare la diffidenza ed incanalare la collaborazione? Intanto con l’organizzazione, all’interno di aree territoriali, vaste ed omogenee, di “zone di sviluppo concertato”, con comuni programmi di investimenti e scambi. Un esempio venne a concretizzarsi nella collaborazione, per un certo tempo rivelatasi fruttuosa, tra l’Egitto ed altri Paesi arabi della Regione, i quali confluirono nella R.A.U., (Repubblica Araba Unita) su lungimirante iniziativa, negli anni ’60, del Presidente egiziano Gamal Abdel Nasser. Altro esempio della collaborazione internazionale, nella solidarietà ed interdipendenza, si ebbe nei contratti di fornitura petrolifera tra l’E.N.I. del Presidente, On. Ing. Enrico Mattei ed i Paesi arabi, con i quali l’Ente di Stato italiano ebbe rapporti di partnership in parità, nella gestione dei prodotti petroliferi.
Del valore spirituale dell’accoglienza, verso i profughi e gli immigrati, si occupò pure, con un importante e doveroso richiamo alla fraternità cristiana, che coinvolgeva singole famiglie ed associazioni culturali, l’Enciclica Paolina.
Il richiamo fu rivolto (allora come oggi) alla sollecitudine nei confronti di chiunque sia solo, abbandonato, in situazioni disperate, e per tal motivo esposto alla tentazione di ricorrere a “dottrine eversive ed a tentazioni aggressive”. A questo stesso dramma avevano fatto riferimento anche i due importanti documenti pontifici, Ad Petri Cathedram e Pacem in Terris.
Un tema che trovò specifico e molto avvertito e sentito sviluppo nella Populorum Progressio fu poi quello dell’investimento dei capitali dai Paesi industrializzati a quelli emergenti che interessò i manager che impiantavano nei Paesi da poco indipendenti (e, quindi, desiderosi di apprendere l’arte manageriale) sedi distaccate dell’industria base e che facevano affidamento sul personale, presente sul posto, per tutto quanto riguardava l’attività lavorativa. L’aspetto più importante di questa collaborazione che si instaurava tra Paesi diversi (con diversi sistemi, sociali, politici, culturali, etc.) fu il timore, espresso nella Enciclica, che il rapporto di lavoro fosse avvelenato da impronta disumana, atteggiamenti dirigenziali dispotici, che il lavoro non apportasse cioè le doti di umanità, presenti nelle due società, non aiutasse il progresso della cultura dei due Paesi. L’esportazione delle attività imprenditoriali doveva essere utile non solo a far fruttificare lo sviluppo economico, ma anche quello umano.
Paolo VI° preparò quindi la conclusione della bellissima Enciclica, con un vero e proprio appello della Chiesa cattolica all’uomo contemporaneo, affinché potesse riscoprire le proprie radici, dedicando con la carità che è dono di Dio per tutti, l’attenzione ai poveri, progredendo infine verso la rimozione delle malattie e delle disuguaglianze e costruendo la pace “giorno per giorno, nell’ordine voluto da Dio”. Analogo auspicio aveva espresso il Presidente Kennedy all’O.N.U., nel 1963: “La pace è un processo che si attua di giorno in giorno, di settimana in settimana, di mese in mese, modificando gradualmente opinioni, logorando lentamente vecchie barriere, creando silenziosamente nuove strutture…”. Tra le nuove strutture che dovevano essere “silenziosamente create” vi doveva essere spazio per le nuove Nazioni Unite, per una nuova organizzazione che doveva trasformarsi secondo il Presidente americano “in un autentico sistema di sicurezza mondiale”. Che cosa è allora un sistema di sicurezza mondiale?
Non è forse quella “autorità mondiale, in grado di agire efficacemente sul piano giuridico e politico”, quella stessa autorità a cui il Papa, nell’Enciclica, conferiva un incarico spirituale e morale, di trasformare la società ed il futuro dell’uomo? E quello proprio, aveva auspicato anche Papa Giovanni, nella Pacem in Terris, nella parte in cui aveva prefigurato per le Nazioni Unite, un “adeguamento alla vastità e nobiltà dei suoi compiti…ed una tutela efficace in ordine ai diritti che scaturiscono immediatamente dalla loro dignità di persone…universali, inviolabili, inalienabili”.
La Populorum Progressio rappresentò indubbiamente un importante momento, nel Pontificato di Papa Paolo VI°: il Beato Papa, pur essendosi certamente avviato lungo un percorso, già aperto in precedenza dalle grandi Encicliche giovannee, riuscì però a consolidare questo importante aspetto sociale della dottrina della Chiesa, conferendo, con l’autorevolezza e l’acutezza del pensiero, quel vasto sviluppo internazionale che la questione ebbe successivamente e che i due Giovanni non poterono compiutamente esaminare ed approfondire per il limitato tempo concesso alle rispettive missioni politiche e pastorali.
Il Papa era profondamente amareggiato per quella guerra – la guerra in Indocina – che sembrava non dovesse mai concludersi. Espose la posizione della S. Sede in quello stesso anno 1967, in cui aveva in precedenza pubblicato la Populorum Progressio, intanto al vicepresidente degli Stati Uniti, Hubert Horatio Humphrey, in visita in Italia ed a Roma e manifestando tutti i motivi di contrarietà al conflitto indocinese e successivamente nel dicembre di quello stesso anno 1967 all’indirizzo di Johnson, in visita a Roma, con una chiara dichiarazione e senza mezzi termini: “La Chiesa non può approvare i bombardamenti come strumento di difesa della libertà”.[2] Paolo VI aveva desiderato poter prendere direttamente parte di persona all’iniziativa di pace e recarsi ad Hanoi, ma questo non fu reso possibile dalla violenza del conflitto; all’inizio del 1968, attraverso la grande offensiva del Tet, il Capodanno lunare, le forze dei Vietcong misero drasticamente sotto assedio tutto il Vietnam del Sud ed anche il massiccio apparato delle forze armate americane che avrebbero dovuto proteggere – almeno secondo le intenzioni – lo stesso Vietnam del Sud. Fu quella la svolta che fece con tutta evidenza credere ai governanti americani che non era più possibile vincere la guerra con la forza delle armi. McNamara presentò finalmente le dimissioni da ministro della Difesa degli Stati Uniti lasciando spazio al suo posto all’avv. Clark Clifford, il quale però non poté fare a meno di notare come la decisione di non aver fermato i bombardamenti fosse da considerarsi errata. Poco tempo prima, alla fine del 1967, un sondaggio aveva anche rivelato che “il 77% degli intervistati riteneva sbagliato il modo in cui Johnson conduceva il conflitto in Vietnam a fianco del Vietnam del Sud”.[3] E, quello stesso uomo al potere che si era ritrovato in tanto drammatiche e tragiche circostanze e che il 16 marzo 1968 aveva dichiarato che non avrebbe fermato mai i bombardamenti, pochi giorni dopo invece, il 31 marzo 1968, fu costretto a fare una clamorosa marcia indietro, annunciando proprio la fine dei bombardamenti sul Vietnam del Nord, l’apertura americana a trattative di pace e soprattutto, comunicando alla Nazione, il ritiro dalla competizione politica e quindi il disinteresse per la campagna presidenziale e per le elezioni stesse del “68.
Meglio tardi che mai?
Certo che le parti in guerra però, nonostante tutto, solo nel 1973 ritennero di poter esporre le loro opinioni di abbandono del conflitto ed inizio di trattative di Pace in incontri appositamente aperti nella Capitale francese. L’impegno e la tenacia, spirituali e morali del Papa Paolo avevano finalmente incontrato l’approvazione delle parti in causa. Nel frattempo però, già dal 1-1-1968, Papa Montini aveva preso l’iniziativa di istituire la giornata mondiale della pace, assegnandola all’inizio di ogni anno.
L’iniziativa del Papa di disporre la celebrazione della giornata mondiale della pace, il 1° gennaio di ciascun anno – a decorrere dal 1968 – rientrò sicuramente nello spirito del Concilio Ecumenico Vaticano II e quindi entro l’ambito di quella rilevante esortazione morale, ma fu anche dettata certamente dalla premurosa sollecitudine del Sommo Pontefice per le sorti dell’umanità, in quello stesso anno, più che mai attraversata, da ingiustizie, egoismi e pericoli di ogni genere, ed in alcune zone, addirittura, interessata da rivolte sociali e da vere e proprie guerre regionali. Il Papa si fece dunque assertore, propugnatore delle aspirazioni dei Popoli, dei Governanti del Mondo, delle Organizzazioni internazionali, delle Istituzioni religiose, dei Movimenti per la pace, dei Giovani, di tutti quelli che in una parola “vedono quanto la Pace sia al tempo stesso necessaria e minacciata”. Per tal motivo, l’istituzione della giornata mondiale della pace non può essere catalogata come una iniziativa avente come punto di riferimento la Chiesa Cattolica, quasi fosse un valore esclusivo del patrimonio della Chiesa Cattolica, ma deve essere ritenuta una iniziativa nell’interesse di tutti, in “quanto la pace è bene primario, nel vario concerto della moderna umanità”.
Lo spirito del messaggio trovò dunque i riferimenti dottrinari importanti nel Concilio e nella Pacem in Terris; molteplici e diversi restavano i richiami culturali, dai pericoli degli egoismi tra le Nazioni alle reazioni violente dei popoli in via di sviluppo, dalla corsa agli armamenti “sterminatori”, che da sempre sottraggono alla collettività enormi mezzi finanziari, all’equilibrio della deterrenza (che John Kennedy e Nikita Khrushchew intendevano superare con accordi bilaterali), alla necessità della convivenza, valore che rendeva possibile alle due grandi Potenze, come gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, quella forma di collaborazione oltre la stessa coesistenza pacifica. La fiducia del Papa era riposta senza tentennamenti sull’O.N.U., Autorità internazionale dotata di “prestigio e fiducia”, sufficienti ed in misura da far fronte agli importanti compiti, assegnati dallo Statuto. Con Papa Giovanni, richiamò gli stessi valori esclusivi della vera pace, la sincerità, la giustizia e l’amore, nei rapporti tra gli Stati, il rispetto dei diritti della persona e l’indipendenza delle singole Nazioni. Il Papa sintetizzò il complesso dei motivi che lo avevano guidato verso quella importante decisione con la quale volle richiamare lo spirito della fratellanza e della pace per l’umanità, il primo giorno dell’anno: in primo luogo, come dovere di Pastore universale, per la guerra in Vietnam, che poteva minacciare “la pace in misura grave, e con previsioni di avvenimenti terribili”; per il fatto che la pace emergeva in modo netto come l’unica forma del progresso umano; per la mera constatazione che tutto il Vangelo è un inno agli “operatori di pace”, cioè solo a coloro che fanno prevalere “le virili virtù della ragione e del cuore d’un vero umanesimo”, con un chiaro richiamo al cattolicesimo di Biagio Pascal; infine, per “le apocalittiche forme” che poteva assumere una nuova guerra. Il richiamo universale alla Pace doveva essere inteso, nel pensiero di Paolo VI, come un vaccino contro la guerra, sia contro quelle che il Santo Padre definì “le rinascenti premesse della guerra”, sia contro “le insidie di un pacifismo tattico”. Papa Montini espresse anche nel modo più ampio possibile, nel modo più esauriente, dal punto di vista religioso, filosofico e morale, il punto di vista ecclesiastico per il rispetto della Pace e della Vita, “contro ogni pericolo, ogni malanno, ogni insidia”. Non sfuggì certo al Santo Padre la questione sociale, presente in Italia, ed in molti altri Paesi democratici dell’Occidente, in cui molti giovani ritenevano di poter aspirare a cambiare la società abbracciando il mito della ribellione e della violenza armata; non sfuggì certo il dato di fatto, a Papa Paolo, che la forza di questa ribellione giovanile armata, pur affondando le sue radici nella contestazione della gerarchia sociale, per il miglioramento del sistema di vita, pienamente legittima, tuttavia si collegava a “forme associate di egoismo collettivo…che talora degenerano in gesta di spietato terrorismo…la violenza conduce alla rivoluzione, e la rivoluzione alla perdita della libertà”. Il Papa approfondì ogni aspetto connesso, collegato all’uso della violenza, “male che umilia l’uomo che vi fa ricorso”, ed in questo contesto collocò la condanna, senza appello, che la Chiesa pronunciò contro l’aborto, vero ed autentico crimine contro la Vita. Il Papa concluse le sue riflessioni con un rilevantissimo messaggio, d’amore e di speranza, da dedicare ai giovani e che costituì poi la base su cui S. Giovanni Paolo II, a sua volta, collocò l’istituzione della Giornata Mondiale della Gioventù, alcuni anni dopo. L’incitamento che Papa Montini volle rivolgere ai ragazzi fu di lottare per la giustizia e per l’amore, e quella sollecitazione, piena di ansia e di speranza, che il Grande Papa indirizzò al Mondo, costituì uno dei più rilevanti aspetti del suo Paterno Magistero.
Nell’omelia del 4 dicembre 1963, in occasione della cerimonia di chiusura della seconda sessione del Concilio, Papa Montini rivelò la decisione di voler intraprendere, per il mese di gennaio 1964, un pellegrinaggio in Terra Santa, “con l’intenzione di rievocare di persona i principali misteri della nostra salvezza, cioè l’Incarnazione e la Redenzione”. Scopi rilevanti del primo viaggio papale, oltre i confini dell’Italia, furono indubbiamente la costruzione dell’unità della Chiesa, col contributo dei Fratelli separati, e l’implorazione e la ricerca della pace in Medio-Oriente e nel Mondo, “vacillante e trepidante” in quel momento storico.
In effetti, fu il primo Papa a visitare tutti i cinque Continenti ed attraversare ben nove Stati, realizzando una aspirazione dei predecessori. Nel 1969 viaggiò entro il Continente Africano nella zona di Kampala, Uganda, località in cui elevò suppliche e preghiere ai santi martiri ugandesi del 1800. Essi furono 22 servitori e funzionari del Re Uvanga 2° già dichiarati Beati da Benedetto XV e successivamente canonizzati da Papa Paolo con l’erezione di un santuario in memoria del sacrificio della vita per la Fede, sottolineatura della missione del Sommo Pontefice di illuminazione e guida per tutti i cristiani, senza alcuna differenza, tra ortodossi, cattolici o di altri riti. Fu evidenziato pure che Papa Montini con quella missione avesse voluto mettere nel giusto risalto il ruolo di ecumenismo nel sangue dei Santi Martiri Ugandesi. Un altro obiettivo della missione in Africa fu il tentativo di comporre il conflitto etnico tra la Nigeria ed il Biafra, che a quel tempo provocava una logorante e sanguinosa guerra intestina, all’interno di una singola Nazione. Paolo VI, quindi il Sommo Pontefice che attraversò il Mondo, in missione di Pace: “viveva nell’ansiosa ricerca di contatti umani, dai lunghi pellegrinaggi…tornava sollevato, quasi ringiovanito”,[4] ma era proprio il contatto umano che rivelava pienamente al Santo Padre il livello dell’indigenza e le aspettative dei popoli, come anche la fiducia dei poveri verso la Sua persona e nei confronti dell’autorità morale della Chiesa Cattolica. Proprio nel corso del pellegrinaggio a Bombay, in India, ricavò argomenti per il lancio dell’appello ai governanti di tutto il Mondo, affinché destinassero almeno l’1% delle spese per gli armamenti al sollevamento della condizione dei popoli sottosviluppati, cioè i temi che si trovò ad approfondire nella fondamentale Populorum Progressio.
Nella bolla per la convocazione pubblica nell’Anno Santo 1975, del 23 maggio 1974, il Papa aveva già tracciato gli obiettivi del Pontificato, che dovevano considerarsi, come dire, il manifesto spirituale, la lettera di riunione formale dei fedeli dell’Anno Santo 1975: il rinnovamento e la riconciliazione di tutta la famiglia umana, affinché “gli uomini si riconoscano fratelli e percorrano le vie della pace”. La concretizzazione dell’espansione di una epoca di pace, non solo al fine di raggiungere l’unità dei cristiani, fu un obiettivo sempre presente nell’apostolato di Paolo VI, anche per realizzare i fondamenti della libertà, della giustizia sociale, dell’unità e della pace, tra i popoli del Mondo. Papa Montini si pose in via prioritaria questi obiettivi come fini specifici della Comunità Ecclesiale, fini da raggiungere attraverso il Ministero Papale, in via spirituale, con lo sviluppo dell’azione apostolica della Chiesa stessa e l’evangelizzazione; fini da raggiungere, in via programmatica, come impegno della Chiesa universale, senza alcun limite temporale, derivante direttamente dall’applicazione delle direttive del Concilio Vaticano II, per “procurare la purificazione e l’approfondimento della fede fra i credenti, illuminare i dubbiosi, muovere gli indifferenti ad una gioiosa e vitale accoglienza della buona novella…spingere inoltre tutti ad una consapevole e fruttuosa partecipazione ai sacramenti…”.
Nel 1975, l’anno del Giubileo, la situazione mondiale non appariva per nulla dissimile da quella odierna: l’umanità era desiderosa di medicare le ferite procurate dalle guerre regionali – allora come oggi – e dalle tensioni e delusioni, arrecate ai popoli, dalle ingiustizie, dalle sperequazioni, dalle carestie, dalla malattia e dalla fame; Papa Montini comprese pienamente il desiderio di guida spirituale, nel momento forse più delicato, attraversato dall’umanità, alla fine della Guerra Fredda, guida invocata dai popoli, e fu in grado di garantire queste aspettative, conferendo loro piena valorizzazione, espressione spirituale e morale rivendicazione.
Come acutamente rilevato nell’interessantissimo saggio, da Antonio Ugenti,[5] Papa Montini lavorò non solo per rivitalizzare lo spirito ed il cuore della Chiesa, ma anche s’impegnò per riformare, per cambiare le strutture della macchina ecclesiastica. Nello spirito del Concilio che, dal Papa Paolo VI trasse sviluppi inimmaginabili, elaborando documenti fondamentali, la Chiesa e la Fede s’incamminarono lungo le vie del Mondo, “mentre conflitti di generazioni ed ideologie correnti…si rivelavano impotenti a risolvere i problemi”. Il Santo Padre promosse l’unità dei cristiani, mantenne l’equilibrio tra le varie componenti ecclesiali, evitando gravi lacerazioni, promosse e difese la Pace, in modo coraggioso ed instancabile, difendendo i diritti umani, dialogando con tutti, superando le barriere politiche, “di sistemi avversi alla religione, le barriere ideologiche, di dittature di opposto colore, le barriere sociali, che ostacolavano l’annuncio dei valori umani e cristiani…”.
Paolo VI resta il Papa che aprì orizzonti sconfinati all’azione sociale della Chiesa, orizzonti, che tutti i successori, hanno ampiamente voluto approfondire e sviluppare.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Abbiamo notato, dalle parole del messaggio papale per il 1978, la preoccupazione chiara con cui il Beato Paolo VI guardava alla situazione sociale italiana, in preda a contestazioni e convulse ribellioni di larghi settori dei giovani, anche studenti e di diverse condizioni, spesso strumento della violenza terroristica, oppure oggetto di manovre per destabilizzare il nostro Paese. Ma il Papa non poteva immaginare minimamente quello che sarebbe accaduto e che infatti accadde: la violenza terroristica prese in ostaggio prima col sequestro in un criminale e vile agguato, culminato successivamente nell’orrendo massacro degli uomini della scorta, e poi nell’esecuzione di una sentenza di morte, il suo allievo più illustre, l’uomo che aveva saputo tradurre in politica, il pensiero spirituale, morale, filosofico e giuridico del Papa stesso, cogliendo i “segni dei tempi”, lo statista democristiano, aperto al dialogo ed alla creazione di nuovi spazi partecipativi per la democrazia del nostro Paese: l’Onorevole Professor Aldo Moro. Papa Montini sperò fino all’ultimo che il Presidente potesse essere liberato, anche col corrispettivo di un riscatto in denaro, ma la trattativa non andò a buon fine e l’Onorevole Moro fu ucciso. Il Papa manifestò il suo grande dolore per l’allievo che gli era stato vicino negli anni della FUCI e che aveva saputo tradurre in azione politica i valori spirituali e morali di Giovanni Battista Montini: il 13 maggio 1978, celebrò il rito funebre per l’amico scomparso, con il presentimento della sua fine ormai vicina (“in questa giornata di sole che inesorabilmente tramonta”). Papa Montini rese omaggio con parole di ineguagliabile affetto e profonda commozione, al Presidente, (“uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico”) e quasi rimproverò Dio per non avere conservato in vita Aldo Moro (“Tu non hai esaudito la nostra supplica per l’incolumità di Aldo Moro”). Il Pontificato di Paolo VI, che appena quasi all’inizio visse lo stesso sgomento e dolore mondiale, per la tragica fine del Presidente Kennedy a Dallas, fu attraversato da altri lutti, tragedie, attentati e guerre, poi alla fine fu di nuovo profondamente colpito dalla incalcolabile e profonda perdita del Presidente democristiano.
Il Papa, già però sofferente per la malattia, non poté opporre al profondo dolore alcuna nuova altra resistenza fisica, e venne quindi a mancare a tutti noi ed al Mondo, il 6 agosto 1978.
Sebastiano Catalano
[1] Andrè Fontaine, La Guerra Fredda, Ed. Piemme, 2005, pagg. 310 – 311.
[2] Ennio Caretto sul Corriere della Sera, 22 agosto 2005, pag. 31.
[3] Andrè Fontaine, op. cit., pag. 312.
[4] Luigi Bazzoli, Papa Paolo VI, op. cit., pag. 96.
[5] A. Ugenti, Paolo VI, Un Papa da riscoprire, S.E.I., Torino, 1985, pagg. 19 – 23 e 27 – 28.