L’espatrio dei professionisti e la loro migrazione dalle aree rurali a quelle urbane costano al continente miliardi di dollari ogni anno e fanno calare la qualità della vita di tutti. Il Mozambico ha provato a correre ai ripari nel settore sanitario, ma non si possono costringere i sanitari a esercitare la professione nelle aree rurali, dove c’è più bisogno.
La fuga dei cervelli è anche africana. La crescita delle occasioni di formazione – almeno per i figli dell’élite e della classe media continentale che si sta sviluppando – sommate alle scarse opportunità lavorative all’altezza della preparazione acquisita, producono come inevitabile risultato la scelta di andarsene. Condivisa sia da chi raggiunge le grandi città del proprio Stato d’origine partendo dai villaggi delle aree rurali, sia da quanti decidono di cercare condizioni migliori in un’altra nazione o addirittura continente.
Danni all’economia. Il migrante economico, insomma, può non corrispondere allo stereotipo del povero allo stremo e neanche è sempre vera la narrazione speculare, quella delle rimesse degli espatriati che vanno a beneficio del continente in cui sono nati. A metà dello scorso decennio l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) calcolava che l’Africa avesse perso, dal 1990, una media di 20mila professionisti l’anno. Per rimpiazzarli con personale straniero, stimava l’International Development Research Centre, si spendevano 4 miliardi di dollari l’anno. Cifre non troppo cambiate nel recente passato, come dimostrano i dati – i più aggiornati a disposizione – citati a fine 2011 dall’agenzia di stampa britannica Reuters: secondo questi numeri, i Paesi dell’Africa subsahariana avevano perso 2 miliardi di dollari solo per formare medici che sarebbero poi andati a lavorare all’estero, persino in nazioni come gli Stati Uniti. Ed è proprio al settore sanitario che si può guardare per cercare alcune radici di questo stato di cose, i fattori che influenzano la “fuga di cervelli africana”: un fenomeno deleterio che incide non solo sulla ricchezza nazionale ma, a lungo termine, sulla stessa qualità della vita dei popoli.
Il caso Mozambico. Il Mozambico rappresenta un buon esempio delle difficoltà che un aspirante medico può incontrare fin dall’inizio: sono solo cinque le scuole di medicina in cui è possibile formarsi e appena due finora hanno fornito laureati al Paese, quella dell’Università Statale di Maputo, la capitale, e quella dell’ateneo cattolico di Beira, la seconda città del Paese. Il rettore di quest’ultima, padre Alberto Ferreira, elenca le sfide che il sistema educativo dei futuri professionisti deve affrontare: “Il Mozambico – spiega – ha pochi medici in rapporto ai suoi 25 milioni di abitanti e per formarne un numero sufficiente, di scuole di medicina ne servirebbero forse 50!”. Una volta laureati e specializzati – cosa, la seconda, che può avvenire solo nei grandi centri urbani o addirittura all’estero – il problema diventa poi trattenere i nuovi medici, soprattutto per coinvolgerli a loro volta nell’insegnamento. “Bisogna ‘mozambicanizzare’ di più il settore, che oggi dipende troppo da personale straniero – insiste padre Ferreira – e ricordare che in ogni caso la formazione non finisce con l’educazione, ma comprende anche una ricerca scientifica che possa produrre risultati per il futuro, ad esempio nel campo delle malattie tropicali”. Obiettivi per i quali servirebbero investimenti, oggi destinati però soprattutto a risolvere un’altra emergenza: quella della concentrazione dei “cervelli” nelle grandi città, dove esistono più opportunità economiche.
Incentivi e vocazioni. Per rispondere al problema il governo di Maputo usa un misto di obblighi e incentivi. Il dovere di tutti i medici neolaureati, secondo le regole in vigore, è infatti quello di trascorrere i primi due anni della propria carriera nelle zone rurali, lavorando per il servizio sanitario nazionale. A rendere il compito meno gravoso dal punto di vista concreto intervengono quindi agevolazioni economiche, oltre a benefit come la possibilità di usare una casa o un’auto fornite dallo Stato. Un sistema che ha portato alcuni risultati, ma che rischia di apparire una costrizione. Dunque, propone padre Ferreira, bisognerebbe intervenire anche ad un secondo livello, non economico ma umano: “Chi comincia a studiare da medico – sostiene il religioso – deve sapere da subito che non sarà al servizio solo delle popolazioni cittadine: la medicina è una vocazione da fare propria durante il periodo in cui ci si forma. Gli incentivi sono solo uno stimolo ulteriore e un invito a non sentirsi abbandonati” dalle autorità, conclude il sacerdote.
Davide Maggiore