Quanto cammino devono fare le nostre comunità per essere “piccole luci di riferimento”, “luoghi di accoglienza”, “punti di riferimento”, “uno spazio di relazioni benevole” nei “quartieri anonimi della nostre città”, come ha chiesto il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei e arcivescovo di Genova, nella prolusione del Consiglio permanente della Cei, in corso a Genova? Su questa prospettiva pastorale si esprime don Antonio Mastantuono, docente di Teologia pastorale alla facoltà di teologia della Pontificia Università Lateranense.
Essere “piccole luci di riferimento”, “luoghi di accoglienza”, “punti di riferimento”, “uno spazio di relazioni benevole” nei “quartieri anonimi della nostre città”. Questo il compito indicato dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei e arcivescovo di Genova, alle comunità cristiane, nella prolusione al Consiglio permanente della Cei, in corso a Genova. Il porporato ha ricordato anche “la generosità del nostro Clero, che si spende ogni giorno accanto a tutti e a ciascuno con disinteresse e trasparenza”. Ma quanta strada devono fare le nostre comunità per raccogliere la sfida lanciata dal presidente della Cei? Alla domanda ha risposto don Antonio Mastantuono, docente di Teologia pastorale alla facoltà di teologia della Pontificia Università Lateranense.
Spirito di accoglienza. “C’è uno slancio di accoglienza presente nelle comunità cristiane: è uno spirito che portiamo con noi come tradizione, ma che chiede di essere educato e sempre ravvivato – sottolinea don Mastantuono -, perché ci accorgiamo che in alcune parti d’Italia, ad esempio al Nord, un vento di rifiuto si sta insinuando anche nella comunità cristiana”. Per il pastoralista, “non basta dire accogliamo, bisogna capire come lo facciamo. Allora, le comunità cristiane devono essere educate a far sì che l’accoglienza diventi via per l’integrazione e rispetto per le persone. Si tratta di imparare a vincere le due paure che s’incontrano: la paura di noi che accogliamo, ma anche la paura di chi deve essere accolto. Perché possa esserci una vera solidarietà, bisogna superare il semplice assistenzialismo educando le comunità ad accogliere veramente, ridando dignità alle persone, mettendo in moto processi di conoscenza reciproca. Da un lato, c’è l’emergenza che preme, dall’altro la razionalità, che devono camminare insieme”.
Ridare la parola al popolo di Dio. Un ruolo fondamentale va riscoperto proprio nei luoghi di maggiore emarginazione. “Le nostre comunità cristiane, soprattutto quelle delle grandi periferie, devono diventare il primo luogo dove chi arriva si senta accolto – osserva don Mastantuono -. Anche qui l’accoglienza non può ridursi a un’elemosina. Le nostre comunità saranno accoglienti nella misura in cui saranno in grado non solo di dare vestiti o la casa, ma anche di far sentire ciascuno una persona degna di tal nome, intessendo rapporti, come dice il cardinale Bagnasco, dialogando, ascoltando le storie che ha da raccontare”. Ma come si aiutano le comunità a diventare “piccole luci di riferimento”?
Occorre “ridare la parola al popolo santo di Dio”, è la ricetta proposta del pastoralista,
che evidenzia: “Il parroco, prima di tutto, è un direttore di orchestra: deve essere capace di far entrare in relazione le varie presenze dentro la comunità cristiana”. Anche qui, però, la domanda nasce spontanea: “Chi è la comunità cristiana? Quelli che vengono a Messa tutte le domeniche? La famosa comunità dell’altare? Ma – sostiene il pastoralista – è comunità cristiana la cosiddetta comunità del fonte battesimale, che comprende pure i battezzati che non vengono in chiesa.
La comunità è un soggetto plurale.
Ci sono i credenti, i diversamente credenti, i non credenti. Rispondere alla domanda qual è la comunità cristiana oggi e poi avviare processi per costruirla è una delle grandi sfide delle nostre parrocchie”. Oltre a “ridare parola”, occorre “creare occasioni istituzionalizzate, come possono essere i consigli, ma anche luoghi di incontri: una parrocchia di periferia, dove spesso si vive anche un’emarginazione sociale, deve essere il primo luogo dove la gente può parlare di se stessa, dei suoi problemi, può ritrovare se stessa e avviare percorsi di approfondimento della propria fede. Solo così nasce una relazione e, di conseguenza, un’appartenenza, che non è giuridica.
Solo quando ci si accorge di essere parte, s’inizia a partecipare. Serve questa consapevolezza per sentirsi corresponsabili”.
La rete delle parrocchie. Il cardinale Bagnasco ha parlato anche della quotidiana prossimità della Chiesa al popolo. “Il reticolo parrocchiale, che per secoli ha retto il cattolicesimo italiano, ancora oggi tiene, malgrado il calo di partecipazione. Infatti, non c’è luogo d’Italia dove non ci sia in qualche modo la presenza ecclesiale. La Chiesa non ha lasciato nessun angolo del paese abbandonato. Questo viene percepito dalle persone – afferma don Mastantuono -. Le parrocchie sono ancora il portone a cui bussano migliaia di persone: basta vedere come funzionano le Caritas parrocchiali o le mense, realmente luoghi a cui la gente si rivolge quando è in difficoltà. E poi c’è la capacità profetica della Chiesa di rispondere a bisogni, con un’attenzione e una grande sensibilità ai nuovi problemi che emergono, come quelli dei padri separati. Ci sono parrocchie e Chiese locali che hanno costruito strutture per rispondere a questo tipo di bisogno”. Il pastoralista pone un ulteriore interrogativo: “Siamo percepiti solo come una sorta di pubblica assistenza o quest’assistenza viene colta nel suo senso più vero, come carità, cioè promozione dell’uomo?”. Anche qui non bisogna lasciare niente al caso:
“Le comunità cristiane devono essere aiutate a comprendere che la carità è gesto, ma anche educazione e attenzione alla persona”.
Gigliola Alfaro