Per educare? Serve la “vecchia, cara famiglia”

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In occasione della campagna (in)formativa promossa dal nostro giornale, che intende instaurare un dialogo per fare il punto su ciò che veramente nella vita conta, ciò per cui ha senso spendersi e che valga la pena tramandare alle generazioni future. Ma quanto e come viene percepita la ‘crisi’ dai diretti interessati? È stato chiesto agli addetti ai lavori, docenti di scuole di ogni grado, che vivono ogni giorno a contatto con i ragazzi, che cosa ne pensano.

Tra i ‘segnali-spia’ una docente di greco e latino (madre di tre figli più o meno adolescenti) indica la “semplificazione del sapere che si manifesta attraverso l’uso sempre più approssimativo della lingua italiana e, più pericolosamente, nella difficoltà di acquisire un utile metodo di studio”. Secondo l’insegnante di una scuola primaria del nord, “non è il caso di parlare di emergenza”, ma forse ciò si spiega con le percezioni necessariamente più soft date dall’approccio con i bambini anziché con agli adolescenti, che riflettono più impietosamente la carenza educativa.
Come si può essere testimoni credibili di un sistema di ideali solidi? “Con l’esempio e l’onestà”, risponde un insegnante di tecnica delle scuole medie; “Io cerco di testimoniare la passione per le discipline che insegno e cerco di veicolare i valori in cui credo”, risponde una professoressa di materie umanistiche in un liceo classico.  

Bocciatura secca dei mass media da parte della maestra elementare: “Non sono un esempio e neppure onesti. Non offrono né informazione trasparente e veritiera né programmi educativi”; “Riuscire ad allontanare i ragazzi da certa TV, sottolineando la sua inutilità quanto la sua vacuità, sarebbe già un grande risultato”, secondo il prof di tecnica.  “La loro influenza – continua la prof.ssa di greco e latino – è viziata, da venticinque anni a ora, da interessi di parte che ci hanno portato a vivere in un ‘regime’ fatto anche di ‘nani e ballerine’, di ‘pupe e secchioni’, che non è possibile non deprecare”. Gridare alla catastrofe, però, non ha senso. Sostiene Paola Bignardi nel suo “Il senso dell’educazione. La libertà di diventare se stessi” che il fallimento educativo è il frutto “delle dimissioni degli adulti: essa è lo specchio dei nostri disorientamenti, del basso profilo della nostra visione della vita”.

Non è possibile incolpare i ragazzi di crescere vuoti di contenuti se si formano all’ombra di madri egocentriche e padri immaturi. Non possiamo accusare i giovani di essere disposti a svendersi per inseguire modelli ipocritamente disprezzati e poi proposti (e socialmente percepiti) come vincenti, soddisfacenti, desiderabili. Allora di cosa avrebbero più bisogno questi ragazzi? Le facce si fanno serie, le parole importanti, pesate: “Della vecchia, cara famiglia” dice la professoressa di greco, “di fiducia in loro stessi e di speranza per il futuro” dichiara la maestra. C’è bisogno, consiglia la Bignardi, “che la generazione adulta si rimetta in gioco e riveda il proprio progetto di vita. Dobbiamo costruire alleanze per l’educazione: se educare è difficile, oggi nessuno può farcela da solo. Con pazienza e disponibilità al dialogo, occorre che famiglia, scuola, istituzioni, associazioni, si interroghino su come accompagnare insieme il cammino di crescita di ragazzi e giovani”. Insomma, sulla generazione adulta grava, oggi più che mai, una responsabilità educativa ultimamente rimossa. Sui ragazzi continueranno a ripercuotersi solo gli effetti devastanti del menefreghismo perpetrato finora.