Le parole di T.S. Eliot, scritte nel 1928, che legano in un rapporto dinamico ed indissolubile anche la vita degli uomini moderni con una esperienza viva della liturgia, mi hanno sempre aiutato a vivere in compagnia della fede e nella scoperta della liturgia come il vero spazio e l’unico tempo per sognare e realizzare quello che di vero, di bello e reale ci possa essere e pensare.
Cristina Campo, scriveva che la liturgia – come poesia – è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile.
Nella liturgia, infatti, quando si avvera e la si vive pienamente, si può e si deve trovare ogni cosa. Perché essa tutto prende e trasforma, con un ritorno centuplicato.
Ciò è così vero e drammatico che quanti, nella Chiesa, hanno voluto percorrere la strada dell’annunzio del Regno di Dio senza un radicamento forte nel Vangelo, nella fede vissuta e nella preghiera liturgica, si sono trovati piano piano ad annunciare se stessi, ad avere trasformato il cristianesimo in una militanza. E, nella migliore delle ipotesi, in una esperienza di gruppo che non è diventato mai chiesa, popolo di Dio in cammino.
L’uomo di oggi pieno di paure e di angosce, accresciute anche dalla pandemia del Covid-19 e dalle sue imprevedibili varianti in corso, desidera cercare ansiosamente e il più delle volte anche segretamente, un qualcosa che soddisfi la sua sete di significato.
Nella celebrazione eucaristica l’uomo è recuperato dall’amore gratuito di Dio. E da “perdonato in anticipo”, si riconcilia con se stesso, con gli altri e con tutto il creato.
L’unico posto al mondo dove l’idolatria è impossibile è attorno all’altare. Lì svaniscono gli idoli e ogni possibilità di idolatria. E non c’è traccia di Mammona perché il Crocifisso non possiede più nulla. Lì, non si può ambire al primo posto, perché il Signore morto e risorto, ha scelto di stare accanto a noi per sempre, senza occupare posti.
E non si può amare la violenza, perché Gesù ne è stato la vittima, per averla rifiutata fino in fondo, dalla spada di Pietro alle dodici legioni di angeli. Lì, non si può credere assolutamente alla legge, perché in nome della legge è stato tolto di mezzo, perché con la sua morte ne proclamava un’altra, ben diversa e soprattutto superiore. Quella dell’amore senza misura e del perdono. E ancora, sotto la croce, dove stavano sua madre e il discepolo che Egli amava, nacque la nuova comunità. Così, attorno all’altare sta raccolto il popolo di Dio, la Chiesa, la comunità veramente nuova dei discepoli di Cristo.
Noi cristiani, forti di questa rinascita, non possiamo assistere passivamente ai cambiamenti che rapidamente si stanno verificando nella nostra epoca. Rischiando così di annientare ciò che da secoli persiste perché fondato su un Credo, sulla Fede vera! Sarebbe una colpa grave e un grandissimo danno per il mondo se l’apporto di noi cristiani venisse a mancare o per paura o per neghittosità!
Tra i tanti contributi che, come comunità cristiana, possiamo donare agli altri nostri fratelli, c’è innanzitutto la celebrazione eucaristica nel giorno del Signore che è la domenica, in cui i riti e i momenti hanno la forza di fare della vita un’opera d’arte.
L’influsso della liturgia è grande e incommensurabile: “Essa insegna a tutti, egualmente agisce su tutte le professioni … a tutti parla con la stessa lingua. Insegna l’amore che è il legame di tutta la società, la molla segreta di tutto, la quale muove armoniosamente la vita dell’universo” (N.V.Gogol).
Come può, mi chiedo, allora, la liturgia insegnare e agire su tutti, se le nostre celebrazioni non sono sempre significative, anzi spesso sono affrettate, povere, sciatte?
Tutta la dimensione sacramentale della vita della Chiesa fa riferimento a Cristo ed è opera di Cristo. Ma inscindibilmente legata alla partecipazione attiva dei fedeli che ne sperimentano la forza e la dolcezza, mentre ripetono, senza stancarsi, il “Domine, non sum dignus”.
Fino a poco tempo fa, inoltre, una mentalità teologico-liturgica ha guidato la mano dell’architetto nella divisione e nell’armonia degli spazi. E, in qualche modo, ha imitato la Sapienza di Dio che ha creato ogni cosa. E’ questa che ha ispirato la nascita delle chiese benedettine, quelle cistercensi, le chiese degli ordini mendicanti, come quelle barocche. Ultimamente, però, non è stato più così!
Dal dopoguerra, infatti, troppi abomini architettonici hanno mortificato la sensibilità di molti e non solo credenti. C’è stata una cecità molto grave nei progettisti, ma, ancora più grave e incomprensibile, nella committenza, favorendo anche l’allontanamento della gente dalla Chiesa. La vita moderna è stata in balia della dismisura, che ha invaso tutto, azione e pensiero, vita pubblica e privata.
È tempo di tornare alla bellezza! Servono delle chiese belle per nutrire e conservare la fede! Tuttavia, non una bellezza a buon mercato, ma quella che nasce da una liturgia vissuta e sperimentata come una finestra che si apre all’invisibile.
Si ricordi quanto fu profonda in Agostino la nostalgia e la chiamata alla fede nella Chiesa milanese di Ambrogio dove egli nutriva i fedeli con le sue omelie e il popolo di Dio cantava i Salmi con melodie armoniose e semplici.
Se vogliamo rivedere il popolo di Dio pregare sui banchi delle nostre chiese, anche e soprattutto negli anni del Sinodo, dobbiamo tornare a celebrare le liturgie che accarezzano i cuori, che sensibilizzano le menti e che possano far aprire le loro mani all’opera di Dio nel cuore della vita e delle nostre città.
Dobbiamo innestare la Chiesa nella vita, questa Chiesa che fu fondata per la vita!
“Il bello, diceva Simone Weil, è l’unico criterio di valore della vita umana. Il solo che si possa applicare a tutti gli uomini. Altrimenti non resta che il benessere”.
Celebrare la fede deve divenire esperienza iniziatica, deve trasformare chi vi partecipa. L’impatto del bello si misura sull’effetto che produce nella mente, nel cuore e sulla condotta di vita. Non si tratta semplicemente di vedere o ascoltare qualcosa di bello per gli occhi e gli orecchi, ma di varcare una soglia, attraverso lo sguardo e l’ascolto, permettendoci così di entrare col cuore dentro il Mistero, per abitarlo. Un tramonto è bello se è gustato per l’impatto che ha su di me mentre lo guardo e non se è mera occasione per fare un selfie.
Se la nostra società, allora, non è totalmente decomposta, se gli uomini non respirano solo odio e invidia gli uni verso gli altri, se la follia non ha preso il sopravvento su tutto ed esiste, infine, un barlume di speranza è per la persistenza della celebrazione eucaristica domenicale e per l’opera dei giusti. Se sapremo custodire la domenica, la domenica, a sua volta, custodirà noi.
don Orazio Barbarino
Arciprete di Linguaglossa