Quando il “non senso della vita” si acuisce fino a condurci all’approdo finale che vede nel suicidio un atto obbligatorio, c’è da chiedersi come può un uomo di successo, un artista, colui che ha raggiunto i tanto agognati traguardi giovanili, vivere tormentato dal senso del fallimento e di incapacità.
Un’anima scavata, come la roccia da una goccia d’acqua, fino al suo dissolvimento è forse quella di tanti uomini oggi come lo fu di un grande scrittore, Cesare Pavese, che, se potessimo, vorremmo interrogare ancora per capire come è possibile e perché si arrivi a rifiutare volutamente la propria esistenza. Un uomo innanzitutto, il Pavese, poi un grande artista ma soprattutto una creatura malata, una coscienza scissa, sdoppiata, che pensa e analizza se stessa in un gioco di specchi, di rimandi e citazioni, fino alla paralisi.
Un uomo di cultura, in un mondo che se ne frega, che altro non chiede se non di vivere: farsi una casa, conservare un amico, contentare una donna; un profilo ed un temperamento segnati da profondi tormenti e dall’oscillazione drammatica tra il desiderio di solitudine ed il bisogno degli altri. Già introverso e scontroso nell’età dell’adolescenza, poco dopo il trasferimento della famiglia a Torino, dove il padre lavorava come cancelliere presso il Tribunale, Cesare comincia a concepire il contatto umano come fumo negli occhi sostituendolo sempre più spesso con la solitudine di lunghe passeggiate nei boschi. Del resto anche la madre, dopo il lutto, si è parecchio irrigidita nei confronti del figlio mostrandogli freddezza e attuando un sistema educativo vecchio stampo prodigo di affetto.
Quanto profondamente può incidere l’assenza o il distacco da quell’affetto primario, da quell’amore atavico che ci prepara alla vita che è quello dei nostri genitori a cui siamo stati affidati come doni dal Padre Eterno? E’ forse da ricondursi a questo il peso schiacciante della convinzione di non saper tenere accanto una donna o dell’irrealizzabilità di costruirsi una famiglia? Un peso che lo condurrà inevitabilmente a rinunciare alla vita.
Trattandosi di uno scrittore si è cercato tra le pieghe dei suoi scritti la risposta alle molte domande; si sono cercati indizi nelle parole, nei suoi giudizi, nei suoi pensieri. Ma come si fa oggi a cogliere il disagio umano di una vita rifiutata in chi ha visto cadere tutte le proprie difese erette affannosamente ma inutilmente dal proprio lavoro, dalle proprie aspirazioni, dai propri sforzi che non concretizzano mai l’appagamento interiore, la pace con se stessi che val più del successo e della fama?
Per Cesare Pavese la consapevolezza del suo valore artistico non è sufficiente a risolvere il supplizio interiore che lo opprime, anzi, i suoi successi gli danno nausea; ne avverte il fastidio, l’inutilità. E come allora, anche oggi molti artisti all’apice del loro successo decidono inspiegabilmente di troncare la loro esistenza con un cocktail fatale: farmaci o droghe, veleni, come quello del Pavese che lascia l’amaro in bocca anche dopo la morte. Ma se si continua a scavare, a frugare nelle sfumature di queste vite insoddisfatte emerge ancora qualcosa e per Pavese si tratta di un limite fisico vissuto con angoscia, come una maledizione, “un difetto per cui vale la pena uccidersi” perché rende fallimentare ogni suo rapporto sentimentale. Egli ha amato se stesso ma si è anche odiato a morte, ed alla fine ha comunque lasciato in noi un segno innegabile: perché lui ci ha provato, e ci ha provato sempre, fino all’ultimo, e solo nell’ineluttabile ha conosciuto la sconfitta.
Quando i fatti della vita si ripetono, si ritrovano, si ripropongono, ci suggeriscono allora profonde riflessioni come quelle sul perché si arriva a togliersi la vita, quella vita che dovrebbe essere considerato un dono – e alla quale neanche noi stessi abbiamo il diritto di porre fine – che invece viene vissuta spesso come un castigo, una condanna.
Si può combattere, e magari anche vincere, il non senso della vita? Forse dovremmo spiegarci prima cos’è il senso della vita: sicuramente qualcosa che non si insegna e non si impara ma che si cerca e nessuno lo troverà se non sentirà la necessità di cercarlo, perché esistere non è dipeso dalla nostra volontà; ciò vuol dire che è il frutto della determinazione di un essere supremo che ha voluto la nostra esistenza e, dunque, ce ne ha fatto dono. E per noi il dono diventa una responsabilità: quella di accettarci come siamo, coi nostri pregi ed i nostri difetti; accettazione che non vuol dire subire ma capire e progredire in un migliorare noi stessi, sempre con i piedi per terra, ed anche nella capacità di accogliere noi stessi senza mai adagiarci.
Paradossalmente, anche l’impulso suicida viene concepito spesso come un andare incontro al bisogno imperioso di una vita più piena; per tale motivo, James Hilmann attraverso la sua opera Risvolto ci dice, in sostanza, che il suicidio più che di essere spiegato attende di essere compreso. Invece c’è chi lo considera lo scandalo supremo, il gesto inaccettabile; il diritto lo ha giudicato per molto tempo un reato; la religione lo considera peccato; la società lo rifiuta, tendendo a sottacerlo o a giustificarlo con la follia.
In realtà, nonostante alcuni tentati suicidi o suicidi compiuti avvengano in maniera imprevedibile, nella maggior parte dei casi sono presenti segnali molti chiari, campanelli d’allarme che andrebbero presi seriamente in considerazione. Eliminare meccanicamente ogni possibile rischio è impossibile ma quello che è possibile ed anche utile fare è: prestare attenzione, capirli questi segnali e, soprattutto saper ascoltare. Chi è stato contagiato dal non senso della vita ha bisogno che qualcuno si accorga del suo malessere ed abbia voglia di esserci rendendo possibile la necessità, l’urgenza di condividere quel mostro che si agita dentro quella mente malata.
Cristiana Zingarino