Con il discorso di Giuseppe Conte in Senato e il dibattito che è seguito; con le dimissioni del Presidente del Consiglio nelle mani del Capo dello Stato che avvierà subito le consultazioni, si è consumato l’atto finale del governo faticosamente e tortuosamente uscito dal voto di un anno e mezzo fa.
Quale sarà l’esito finale di questo passaggio ancora nessuno può dirlo. C’è persino un estremo messaggio inviato da Salvini al M5S, con la disponibilità ad approvare definitivamente la riduzione dei parlamentari, al limite fare anche la manovra economica e poi andare alle urne. Ma sarebbe davvero surreale una prosecuzione dell’esecutivo dopo la requisitoria, tanto pacata e razionale quanto implacabile e senza sconti, con cui Conte ha tratteggiato le scelte e i comportamenti del ministro dell’interno, fino all’apertura di una crisi che rappresenta “una decisione oggettivamente grave” e “con conseguenze molto rilevanti per il Paese”.
Un discorso, quello di Conte, che è parso tutto orientato a tagliare i ponti con Salvini.
Il premier ora dimissionario, infatti, non si è limitato a mettere in evidenza la responsabilità del leader leghista in ordine alla crisi e ai rischi che essa comporta per il Paese, dimostrando di “inseguire interessi personali e di partito” a costo di “compromettere l’interesse nazionale”, ma gli ha imputato anche “scarsa sensibilità istituzionale e grave carenza di cultura costituzionale”. Fino a dirsi “preoccupato” per la deriva autoritaria implicita nella richiesta agli elettori di “pieni poteri” e nel richiamo alle “piazze” che il leader leghista ha evocato recentemente. Conte non ha taciuto neanche sull’abitudine di Salvini di “accostare nei comizi gli slogan politici ai simboli religiosi”. “Episodi di incoscienza religiosa”, li ha definiti il premier dimissionario. E Salvini, nel suo intervento in Senato, ha subito provocatoriamente e platealmente ripetuto lo strumentale accostamento stigmatizzato da Conte.
Nell’ultima parte del discorso del presidente del Consiglio ad alcuni osservatori è parso di cogliere un abbozzo programmatico funzionale ad un eventuale governo M5S-Pd.
L’ipotesi è in campo e allo stato sembra l’unica alternativa a un governo “neutrale” che si limiti ad accompagnare il Paese alle urne in modo ordinato e istituzionalmente corretto. Il suo percorso risulta però estremamente complesso e lo stesso Pd appare diviso tra Renzi, favorevole all’accordo per sbarrare la strada a Salvini giudicato “pericoloso” sul piano della democrazia e dei rapporti internazionali, e il segretario Zingaretti che invece è a dir poco scettico. Il M5S si affida a Mattarella, ma il Capo dello Stato ha sempre tenuto una linea rigorosa sulle responsabilità politiche che i partiti devono assumersi in proprio, concedendo semmai il tempo necessario per verificare la possibilità di un accordo come fece lo scorso anno con Lega e Cinquestelle. Questi due partiti, va ricordato, si erano presentati agli elettori in schieramenti contrapposti e il governo Conte nacque da un’intesa successiva, come avviene regolarmente nelle democrazie parlamentari. Quindi nessuno si può arrogare il diritto di bocciare preventivamente altri esecutivi in nome del “popolo”.
Se c’è un dato positivo in questo passaggio così impegnativo per il Paese, invece, è proprio la ritrovata centralità del Parlamento e il riconoscimento del ruolo delle istituzioni nella gestione di una crisi che appare più profonda di un semplice avvicendamento maggioranza- opposizione. Il Paese ha bisogno di ritrovare coesione e solidarietà e di ripartire anche in termini economici. Servirebbe un sussulto di responsabilità da parte di tutti. Non è mai troppo tardi per smentire i profeti di sventura.
Stefano De Martis