La vittoria alle ultime “Primarie” – celebrate, com’è noto a giugno, per il rinvio da aprile, causa l’impedimento da coronavirus – in Stati quali la Georgia, il Nevada, il North Dakota, il South Carolina, il West Virginia, ha permesso ad entrambi gli aspiranti per la Casa Bianca, il Presidente uscente Donald Trump, ed il vicepresidente, già di Obama, Joe Biden, di prevedere che – ottenuta la formale nomination alle rispettive Convenzioni nazionali, programmate ad agosto, si troveranno poi di fronte nell’election day del 3 novembre, ultimo appuntamento elettorale, prima del voto generale per eleggere il nuovo Presidente degli Stati Uniti.
Da questi ultimi dati è di riflesso filtrato il convincimento, riportato da alcune analisi politiche, secondo cui il candidato favorito, al momento, dai pronostici sarebbe Joe Biden, nonostante all’inizio dell’anno, a seguito dell’allocuzione presidenziale sullo stato dell’Unione e della contemporanea archiviazione ad opera del Senato dell’inchiesta sull’impeachment, il capo dell’Esecutivo statunitense fosse già ben collocato in vista dell’agone del prossimo novembre ed avesse rivestito proprio al tempo il ruolo di Front-runner.
Queste sensibili variazioni dei sondaggi elettorali valutano, anzi “fotografano”, gli umori, i convincimenti del momento, i punti di vista del corpo elettorale ed – a ben vedere – sono comprensibili, non debbono sorprendere più di tanto e devono essere giudicati “cum grano salis”, non cioè in modo troppo letterale e tenendo pur conto della competizione, che è già stata estremamente incerta e difficile e che si annuncia fin d’ora come una sfida politica non dissimile dal duello del 2016, che interessò Donald Trump ed Hillary Clinton.
Le oscillazioni delle indagini demoscopiche dell’opinione pubblica, che privilegiano ora l’uno ora l’altro dei due candidati alla Casa Bianca, ancora, ad alcuni mesi dall’appuntamento col voto, non possono costituire un elemento-chiave su cui iniziare a fondare qualche convincimento circa il risultato di quella che sarà la consultazione elettorale generale. Tanto più che oggi, come nel 2016, l’avversario democratico in gara non rappresenta in verità per gli elettori una novità assoluta, cioè un personaggio politico nuovo, ma ripropone invece un protagonista della passata amministrazione, che ha ricoperto già un incarico politico di primo piano. (Per esempio, Hillary Clinton fu già segretario di Stato Obama e venne scelta come candidata alla presidenza del 2016 e così pure lo stesso Joe Biden, che fu già vicepresidente di quella stessa amministrazione, per ben otto anni, dal 2008 al 2016).
Quanto alle condizioni generali del Paese, esse oggi si presentano assai diverse da quelle del 2016. Il popolo americano, eleggendo Donald Trump in quell’occasione, intese certamente voltare pagina rispetto al passato. Perché dovrebbe meditare di ritornare indietro? Perché dovrebbe dichiararsi insoddisfatto del lavoro finora prodotto da Donald Trump?
Quando, all’inizio di questo stesso anno, il covid-19 ha fatto irruzione come pandemia, ha invaso il mondo intero come un tornado, gigantesco ed inafferrabile, ed ha obbligato le nazioni a ripiegarsi subito su se stesse, per mettere febbrilmente in atto ogni iniziativa utile, idonea a porre in sicurezza le popolazioni, gli Stati Uniti avevano già raggiunto un importante accordo con la Cina sulle tariffe doganali e, sul piano interno, a febbraio, potevano contare già su una economia prospera in fatto di occupazione, con altri 273.000 nuovi posti di lavoro non agricoli, ben oltre quelli precedentemente messi in bilancio, che infatti si fermavano a prevedere 165.000 nuovi occupati.
Il tasso di disoccupazione era al 3,5% (in ribasso, rispetto a quello del mese precedente, del 3,6%) ed al minimo storico degli ultimi 50 anni.
Nel mese di giugno 2020, l’economia americana, in pieno coronavirus, ha manifestato un recupero di 4,76 milioni di posti di lavoro non agricoli, dopo le crisi dei mesi precedenti e, significativamente, con un dato che si presentava molto superiore alle attese (che prevedevano l’aumento degli occupati fino a 3,7 milioni di posti di lavoro e non oltre) ed un arretramento dell’indice di disoccupazione, passato all’11,1% rispetto al 13,3% del precedente mese.
I dati economici dimostrano dunque allora una netta ripresa dell’economia americana, nonostante il covid-19. E’, quindi, oggi prematuro fare previsioni sull’esito delle elezioni generali del prossimo novembre. Con cautela è invece lecito forse immaginare che la ripresa dell’economia possa favorire l’Amministrazione in carica, visto che gli americani esercitano il diritto di voto, con una mano sul cuore e l’altra sul portafogli.
D’altra parte, neppure è possibile o ammissibile una critica all’ Amministrazione attuale – come pure è avvenuto dal lato del Partito Democratico – supponendo che l’Esecutivo abbia, come dire, preso o considerato comunque sotto gamba il contagio e si sia limitato a misure minime ed indispensabili.
Occorre subito precisare che gli Stati Uniti sono organizzati in un sistema costituzionale federale, che tutela rigorosamente le prerogative dei singoli Stati e che garantisce intanto molto gelosamente le loro competenze, a differenza degli Stati europei, che, per esempio, hanno in generale preso decisioni sulle misure di tutela per la maggior parte a livello centrale.
Lo spazio d’intervento diretto del capo della Casa Bianca era da ritenere assai ridotto, salvo l’ipotesi di doversi esporre a critiche ed attacchi da parte dei governatori dei singoli Stati dell’Unione. Certo, all’interno dell’ Amministrazione repubblicana si è molto dibattuto sulle scelte da compiere per contrastare la pandemia e per evitare, allo stesso tempo, di deprimere l’economia, ed i fatti stanno in realtà dando ragione al Presidente.
Quanto all’argine contro la diffusione del virus, gli americani, dopo la dichiarazione dello stato d’emergenza per Washington, la California e la Florida, hanno preso tutte le misure, collocando il vicepresidente Mike Pence a capo di una task force incaricata di coordinare gli aiuti e la distribuzione dei finanziamenti straordinari, approvati già dalla Camera dei Rappresentanti e consistenti nel valore di circa otto miliardi di dollari.
Non può essere, quindi, il coronavirus, l’arbitro determinante dell’esito del voto del 3 novembre. Ed anzi, proprio quando la pandemia, aveva avviato la diffusione dei suoi effetti negativi anche negli States, a primavera inoltrata, ecco giungere una nuova e diversa crisi, manifestarsi cioè con tema la discriminazione razziale, e prendere consistenza proprio con l’uccisione di George Floyd, avvenuta il 25 maggio, mentre
costui si trovava in custodia della polizia di Minneapolis.
Chiamato in causa dai soliti critici democratici, anche per questo episodio a sfondo razziale, Trump non ha avuto difficoltà alcuna a controbattere che proprio la sua Amministrazione ha avviato in questi pochi anni un progetto di nuove opportunità e crescita sociale per tutta la popolazione, evitando di distribuire titoli di studio generalizzati per tutti, ma offrendo anzi specifiche condizioni di emancipazione alle minoranze, per mezzo della lotta alla disoccupazione. Una guerra all’emarginazione sociale, condotta dunque con l’istruzione selettiva e non generalizzata.
Allo scopo di impedire il perpetuarsi di discriminazioni sociali verso le minoranze storiche del Paese (asiatici, ispanici, afroamericani), la Corte Suprema di Washington ha provveduto affermando la giurisprudenza che ha elaborato il principio di diritto della preferenza risarcitoria (nell’ ammissione al lavoro come nell’iscrizione ai college e via dicendo).
Ma quanto accaduto a George Floyd chiama in causa però soprattutto la formazione professionale, le modalità di arruolamento e la cultura generale delle forze dell’ordine che, negli Stati Uniti, sono alle dirette dipendenze dei capi delle amministrazioni comunali. E, buona parte dei poteri locali sono retti in fin dei conti dai democratici. E’, quindi, a questo aspetto culturale, forse ancora anche razziale, dell’impostazione delle forze dell’ordine, che occorre far riferimento per mutare il sistema con le necessarie riforme, certamente di natura amministrativa, ma soprattutto mentale, con l’abbandono di credenze, riti, pregiudizi, luoghi comuni ed ideologie, e quanto altro possa dare origine a fatti criminosi gravissimi, come quelli che hanno fatto divenire George Floyd, la vittima.
Allora sorge spontanea la domanda: questi episodi (la pandemia, la morte violenta di George Floyd) possono influire sulle elezioni americane? Sono certamente fatti che hanno potuto influire sulle valutazioni di fasce di elettori, entro un determinato spazio temporale, e poi generalmente possono esaurire gli effetti. Trump, in quanto Presidente in carica, è destinatario anche di normali reazioni psicologiche da parte dell’opinione pubblica, sottoposto a valutazioni di carattere generale, non necessariamente critiche, o addirittura negative, per quanto messo in campo dall’Amministrazione, ma derivanti comunque da episodi aventi carattere straordinario e negativo, accaduti senza connessione alcuna con gli atti politici presidenziali e col programma di governo dell’ Amministrazione in carica.
Al momento non si registrano sostanziali frane dell’impianto del consenso (del blocco elettorale) che ha eletto il Presidente nel 2016, né si notano mutamenti di opinione rilevanti sui motivi che hanno determinato quella scelta del corpo elettorale. Trump resta quindi al momento sostenuto da un serbatoio di consensi, cioè da una fascia di interessi, presente in tutto il Paese ed essa è costituita, come è noto, dalle piccole e medie imprese, ma anche dalla classe operaia, in parte dalla media borghesia cioè un blocco sociale anche populista, che ha voluto reagire a quella che è stata definita dai Mass-media come la globalizzazione a trazione cinese.
Il Presidente è l’espressione di quella parte di opinione pubblica che invoca il ritorno alla globalizzazione a trazione americana, per motivi storici e socio-economici e di valorizzazione degli interessi nazionali. Allo stesso tempo, è anche l’espressione della crisi della concezione liberal della politica, che si era manifestata subito dopo il crollo del muro di Berlino.
La figura di Trump esprime la rottura, o se vogliamo, la critica al consenso verso quell’idea liberal del mondo, cioè degli Stati Uniti in grado di intervenire in ogni area mondiale, in quanto unica potenza planetaria. L’esito delle elezioni del 2016 ha manifestato il venir meno del consenso a quel genere, a quel modo di intendere la potenza americana, certamente più sotto l’aspetto militare che con riferimento a quello economico.
Gli Stati Uniti primi a livello economico globale, sono anche meno invadenti, di conseguenza, sotto il profilo militare. Questo non vuol dire affatto un arretramento in quel settore; è solo un diverso modo di concepire la linea di difesa degli interessi della politica estera americana nel mondo, che separa Trump dalle precedenti amministrazioni (repubblicane e democratiche) a partire dalla caduta del muro di Berlino, in poi. L’innesto del soft power al posto dell’hard power. Trump incarna l’elettorato stanco delle avventure militari all’estero, l’elettorato critico verso la politica, debole e perdente, nel Medio-oriente e nel mediterraneo, di Bush e di Obama.
Cosa propongono Hillary Clinton e Joe Biden? Quella stessa politica, fatto incontestabile. Se vi fosse stato alla testa dei democratici il senatore del Vermont, Bernie Sanders, si sarebbe potuto immaginare un mutamento, ma così non è avvenuto nel 2016 e neppure a ben vedere oggi. E, del resto, è ancora presto per argomentare ipotetiche perdite di consensi dell’ Amministrazione in carica, a causa degli eventi straordinari accaduti.
La storia delle precedenti elezioni impone prudenza nella valutazione dei sondaggi. Nel 1988, prima delle conventions dei rispettivi partiti, le stime davano il governatore del Massachusetts, Mike Dukakis, davanti a Bush sr., allora vicepresidente di Reagan, il quale ultimo però vinse poi le elezioni generali a novembre. Ciò significa che bisogna intanto aspettare l’effetto (mediatico e non) sul corpo elettorale, esercitato dalle assemblee generali dei partiti.
Trump, con la riforma fiscale e gli altri provvedimenti economici varati, è riuscito a ricucire socialmente il Paese, fatto politico neppure tentato da Obama. È ancora presto naturalmente per affermare se sarà o meno una figura di transizione, eletta dai repubblicani e dai democratici delusi nel 2016, e destinata a non durare sulla scena politica.
I presidenti in carica, in genere, e salvo poche eccezioni (negli ultimi 50 anni Ford, Carter e Bush sr.), tendono ad essere riconfermati dagli elettori. Quando ciò non avvenne, si erano trovati alla Casa Bianca per fatti eccezionali e non erano stati votati dal popolo. Così infatti fu per Gerald Rudolph Ford di Grand Rapids, nel Michigan, deputato per infinite legislature, ma investito dei poteri vicepresidenziali nel 1973, dal Congresso, su proposta del Partito Repubblicano, nel momento in cui uno scandalo finanziario costrinse Spyros T. Agnew, vicepresidente di Nixon, a rassegnare le dimissioni dalla carica. Subito dopo, il 9 Agosto del 1974, ereditò pure i poteri presidenziali, una volta che lo scandalo Watergate travolse Richard Nixon.
Carter e Bush sr, fecero naufragio, al momento della rielezione, a causa della forte crisi economica dovuta, nel primo caso all’inflazione e nel secondo alla galoppante recessione. La rielezione o meno di Donald Trump sarà più chiara a settembre, dopo il vertice del G/7 a Camp David. L’assemblea sarà infatti certamente importante ai fini elettorali per il Presidente uscente. Non per nulla, il capo della Casa Bianca, la stessa Cancelliera della RFT Angela Merkel e gli altri rappresentanti delle Nazioni, hanno tutti convenuto di rinviare l’incontro dal 10 giugno a settembre e di poterlo tenere con la diretta loro presenza (e non in video-conferenza). I temi trattati saranno molto importanti, e Trump sarà certamente in grado di offrire ai suoi interlocutori le risposte attese, sia in materia di dazi doganali, che sulle altre questioni, pure molto importanti e delicate, che concernono la necessità che gli Stati Uniti abbraccino, con vigore e convinzione, una adeguata politica di tutela ambientale, senza ritardo, rispetto, alla UE.
In questa opera di moral suasion verso gli USA, la prima sostenitrice dovrebbe essere proprio, la Cancelliera Merkel, nel suo attuale ruolo di presidente di turno per sei mesi della Comunità europea. Infatti, già il 23/03/2018, gli Stati Uniti avevano introdotto dazi doganali del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio, misure che scoraggiavano soprattutto le importazioni di acciaio dalla Cina e dalla Germania, in direzione degli Stati Uniti. Ma la misura che ha molto scoraggiato una vera partnership tra le due sponde dell’Oceano Atlantico, è stata l’ultima iniziativa americana che ha varato – dal 18 ottobre 2019 – tariffe aggiunte, sulle importazioni di aerei commerciali, dall’UE verso gli USA, del 10% , e del 25% su una catena di prodotti, soprattutto alimentari, dai paesi europei verso gli Stati Uniti.
A titolo esemplicativo, si indicano: whiskey scozzese, vini francesi, Emmenthal svizzero, groviera, e poi pecorino, parmigiano e provolone italiani, e prosciutto sempre italiano. Il motivo di questa contesa commerciale iniziò nel momento in cui il Presidente Donald Trump chiese e ottenne dall’Organizzazione mondiale del Commercio l’applicazione di alcuni dazi (o tariffe) doganali contro l’UE, dal momento che la Comunità, per prima, aveva violato le regole sugli aiuti di stato ad Airbus.
Secondo l’organizzazione mondiale del commercio, l’Europa è stata ritenuta responsabile di aiuti illegittimi al colosso aerospaziale, impegnato nella lotta per il domino dell’aria, con la rivale americana Boeing.
È un dato esatto che le tariffe doganali non possono che rappresentare soluzioni temporanee e non regole generali dei rapporti tra stati. Perché soluzioni temporanee? Perché le restrizioni del commercio non portano affatto prosperità economica. Le misure di cupo protezionismo generano PIL più modesto e, come conseguenza, anche disoccupazione più elevata. D’altro canto, in una economia prospera, tutti vivono meglio. Di questo parere fu profondamente convinto il Presidente Kennedy, che si battè per abbassare al minimo tutte le tariffe commerciali, dato che “con l’alta marea, si muovono tutte le barche”. È da prevedere che il prossimo incontro del G 7 possa portare ad un chiarimento tra alleati delle due sponde dell’Atlantico, su questo tema, con equa composizione della contesa UE-USA, con provvedimenti di reciproca utilità. L’altro importante settore in cui il leader statunitense sarà chiamato a chiarire la propria posizione, sarà l’area di interesse ambientale.
Il Presidente in una intervista al New York Times ha in effetti riconosciuto “qualche connessione” tra l’attività umana ed i mutamenti climatici. Nell’arco del suo primo periodo di governo, però è un dato di fatto che la Casa Bianca ha preso una posizione risolutamente “climatoscettica”. Sono seguite dichiarazioni di ritiro dall’accordo climatico di Parigi, quindi è intervenuta la revoca del divieto di caccia ai predatori, introdotta da Barack Obama, poi la riduzione dell’estensione di due aree protette, dello Stato Utah, infine l’abolizione del Clean power plan, norma che imponeva alle centrali termiche la riduzione delle emissioni di CO2 del 32%, entro il 2030, rispetto ai livelli del 2005.
L’agenda del prossimo G/7 sarà ben consistente, ma si potrà certamente puntare sull’interesse, (e di conseguenza)anche sulla volontà del capo della Casa Bianca di voler raggiungere una intesa con la Comunità e le altre Nazioni, sui temi ambientali, tale da promuoverlo con qualche mese di anticipo, sulla data delle elezioni generali, come leader di Washington , per altri quattro anni. I motivi perché il G/7 possa promuovere preziose intese sono tutti sul tappeto, a questo punto non resta che attendere il concreto svolgimento delle discussioni tra i Leaders.
Sebastiano Catalano