Il Presidente Trump è ritenuto ormai il grande favorito in vista delle Presidenziali dell’anno prossimo e questo non sorprendente convincimento sulla posizione di front-runner del Capo della Casa Bianca – che emerge sempre di più all’interno della maggioranza dei commentatori politici, degli esperti dei sondaggi e dei Mass-Media, in generale – in verità almeno in parte segue e risponde al risultato dell’esito favorevole per la Casa Bianca dell’indagine del Procuratore speciale Mueller sul Russiagate.
Sono ben presenti, tuttavia, nell’analisi dei fatti politici in merito a quell’inchiesta, due fattori, due elementi determinanti e molto importanti che occorre analizzare compiutamente:
-La speciosità degli argomenti addotti a sostegno dei presunti elementi d’indagine, l’apparente dubbia consistenza di essa indagine, fin dall’iniziale avvio, e la conclusiva infondatezza finale;
-Il rigore e la serietà – viceversa – con cui l’inchiesta disposta a tutto campo dal Procuratore speciale ha svolto il suo compito ed è giunta all’archiviazione degli atti, dopo avere impegnato l’attività professionale di 19 avvocati, 40 agenti dell’F.B.I., analisti d’intelligence, esperti d’informatica ed anche avuto il sostegno delle deposizioni di circa 500 testimoni.
Si è trattato quindi di una attività investigativa cospicua ed importante, portata avanti con impegno professionale rilevante, con scrupolo efficace e che alla fine non ha dato alcun risultato, in perfetta corrispondenza col principio cardine del diritto penale statunitense in base al quale l’eventuale prova emersa dall’inchiesta deve essere al di là di “ogni ragionevole dubbio e certezza morale”.
Dall’esame dei fatti, più in dettaglio, emerge che in realtà tutto ebbe inizio dall’esito della campagna presidenziale del 2016. A seguito della contrapposizione politica emersa nel corso di questa campagna, vennero messi allo scoperto alcuni elementi che diedero corpo alle ipotesi di reato che Robert Mueller ha però spazzato via con scrupolo, imparzialità ed obiettività.
Il Presidente ha parlato di “caccia alle streghe”, richiamando l’indagine di McCarthy e la schedatura dei comunisti degli anni”50 in quella particolare epoca della Guerra Fredda. Come allora, anche oggi il Paese e le Istituzioni statunitensi hanno chiarito nel caso specifico che non c’è stata nessuna intesa tra G.O.P. e personaggi russi per influire sui risultati delle elezioni del 2016. D’altra parte è stato sempre presente nella tradizione dei rapporti diplomatici tra Washington e Mosca la non interferenza istituzionale nel caso di elezioni generali nei due Paesi. “Fare il tifo”, come diceva Khrushchew, non vuol dire interferire od influenzare addirittura il risultato delle elezioni avversarie. È possibile che anche Putin, come Khrushchew nel 1960, abbia “fatto il tifo” per Trump, cioè per una leadership maggiormente collaborativa e meglio disposta verso Mosca.
La conclusione dell’inchiesta deve servire a dissipare ombre e sospetti intorno al sistema politico statunitense e a dissolvere incomprensioni ed equivoci tra i due gruppi politici che hanno condotto la competizione per il primato del Paese. L’auspicio è pertanto che la Nazione possa ritrovare maggiore unità e coesione al suo interno, e particolarmente nei confronti di quei progetti cui la Casa Bianca tiene molto, con l’intervento dell’approvazione da parte del Congresso prima della scadenza del mandato di Donald Trump, a Novembre 2020.
In vista, pertanto, di questo ormai prossimo appuntamento elettorale, il Presidente esce dunque dal lungo periodo della disputa, soprattutto politica, certamente confortato ed incoraggiato non solo dal positivo esito dell’inchiesta condotta dal procuratore Mueller, ma anche soprattutto sollevato e sorretto dal punto di vista morale e politico dal risultato delle elezioni di Midterm.
L’esito dell’appuntamento con gli elettori, ha infatti premiato i repubblicani assegnando loro al Senato 53 seggi su 100 complessivi pur preferendo i democratici alla Camera dei Rappresentanti, con 222 seggi su 435. Donald Trump può quindi guardare al futuro con maggiore ottimismo, per esempio in politica estera – settore in cui la Casa Bianca ha già messo a segno qualche successo – e può ora impostare il tema di quei nuovi rapporti con la Russia di Putin, in verità molto pubblicizzato già nella campagna elettorale del 2016.
In occasione del vertice di Helsinki del 16 luglio 2018 ed in quelli precedenti del Vietnam a novembre 2017, ed ad Amburgo del G-20, del luglio 2017, le due superpotenze si limitarono a “semplici” dichiarazioni d’intenti, senza la firma di accordi veri e propri, anche formalmente raggiunti. La carenza di intese concrete fin qui avvenuta non deve però trarre in inganno i commentatori politici: i rapporti Trump – Putin fino ad ora hanno dimostrato cordialità ed ad Helsinki il leader russo ha candidamente “confessato” al capo della Casa Bianca di avere contato sulla vittoria dell’attuale Presidente alle elezioni del 2016, non fosse altro “perché prometteva di normalizzare le relazioni bilaterali”, dopo la ricaduta nella “Guerra Fredda” dei rapporti russo-americani, del lungo periodo precedente.
Ecco allora l’analogia storica dal momento che anche Khrushchew confidò a Vienna a John Kennedy di sentirsi molto sollevato per l’affermazione del Presidente della “Nuova Frontiera” su Nixon nel “60, forse insoddisfatto od offeso dall’aver dovuto subire i voli-spia americani sul cielo dell’Unione Sovietica e desideroso invece di trovare, col nuovo e giovane Presidente americano, buoni accordi sul disarmo.
Come a Vienna, dunque, anche ad Helsinki i colloqui tra i due Leader sono stati definiti franchi e cordiali, pur senza approdare ad alcun risultato concreto. Come allora, anche oggi l’utilità è stata palpabile ed evidente ed ha permesso ad entrambi la messa a punto di reciproche linee guida d’azione sulle zone di attrito del Globo. Come a Vienna si trovò quella preziosa convergenza sul Laos, sulla neutralizzazione cioè del piccolo Stato asiatico, così ad Helsinki i due Capi di Nazione hanno avviato una fruttuosa intesa sulla lotta che sta interessando la Siria, e questo accordo ha prodotto intanto la rapida sconfitta dell’Isis, il terrorismo islamico che aveva messo piede nell’area Medio-Orientale tra la Siria appunto, l’Iraq, il Libano e la Turchia, e proiettava su tutta la zona la sua ombra inquietante e destabilizzante.
Questa intesa pratica, che ha aiutato a ritrovare il filo del dialogo, con riferimento allo scacchiere medio-orientale può sorreggere le due super-potenze a ritrovare anche il bandolo della matassa su altre questioni, oggi come allora, ben più complesse ed importanti, per i rapporti Est-Ovest: quali la necessità di porre il freno alla corsa agli armamenti.
Si è potuto appurare in via ufficiosa che il 17 Luglio 2018 ad Helsinki Putin ha consegnato a Trump un elenco di proposte su cui avviare comunque un confronto politico: le discussioni sul rinnovo del Trattato Start, la questione dei missili insediati a Kalinigrad, i problemi delle armi atomiche tattiche, la militarizzazione dello spazio. Tutte queste cose insieme riportano allo spirito del “63 tra le due super-potenze ed anche allora erano in corso trattative serrate, che stavano portando ad importanti accordi. In quel periodo, infatti, sulla militarizzazione dello spazio c’era stata una presa di posizione contraria delle Nazioni Unite, sulla questione delle armi tattiche in Europa era stata trovata una intesa nelle trattative per la MLF della NATO. Allora come oggi, il ruolo della NATO è rimesso di nuovo in discussione: vedremo gli sviluppi nell’ambito delle trattative globali per porre il freno alla corsa agli armamenti?
Anche se entrambi i leaders, Trump e Putin hanno dichiarato recentemente il ritiro dal Trattato sulle armi nucleari a Medio raggio (INF), l’intesa cioè firmata a suo tempo nel 1987 da Reagan e Gorbacew, per lo smantellamento dei missili a media gittata, cioè tra i 500 ed i 5.500 chilometri, le trattative rimangono tuttora aperte. Trump è leader dotato di cospicuo realismo politico; l’analisi politica registra invece, l’analogia con situazioni già vissute nella storia passata. Spesso, nuovi importanti accordi, hanno fatto seguito a periodi di rigida e dura trattativa.
Analizziamo allora in modo più compiuto i vari elementi sul tappeto, dato che oggi essi rappresentano ancora un anacronistico residuo della stagione della Guerra Fredda.
Le armi atomiche “tattiche” furono in effetti ideate alla fine degli anni “50, quando negli Stati Uniti si fece strada la concezione che – nel passaggio dalla dottrina della “rappresaglia massiccia” a quella della “risposta flessibile” – potessero essere utilizzate nelle guerre c.d. “minori”, aventi carattere “limitato”.
Tale convincimento in effetti non si dimostrò esatto, sia alla luce della più obiettiva interpretazione della dottrina della “risposta flessibile” (che doveva appunto attingere e far riferimento ad argomenti aventi natura e scopi diplomatici e se necessario anche militari, ma sempre di natura convenzionale e non nucleare) sia soprattutto alla considerazione del fatto che in ogni caso il Trattato di NPN dell’agosto 1963, sottoscritto proprio dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dall’Unione Sovietica, non permetteva che per qualsiasi motivo si potesse far ricorso ad armi nucleari “tattiche” in qualsiasi conflitto, anche limitato. Armi nucleari “tattiche”, quindi che si rivelano del tutto inutili, con passaggio alla conversione dell’uranio a scopi pacifici.
E sempre allo scopo di far fronte allo scoppio ipotetico di un conflitto limitato, fu deciso verso la fine degli anni “50, il dispiegamento sul teatro europeo ed in ambito NATO, dei missili strategici, con l’obiettivo di “contenere il comunismo” dell’allora Unione Sovietica. Era quella comunque la strategia della dissennata corsa agli armamenti, elaborata in uno scenario politico di “equilibrio del terrore” e del sistema “M.A.D.”, cioè mutual assured distruction, con collocamento di missili tattici, a media gittata, più precisi e meno distruttivi. La caduta del regime comunista dell’ex Unione Sovietica e la nuova Europa emersa ad Est, dopo il collasso del Muro di Berlino e la riunificazione della Germania, impongono tuttavia, anche se in ritardo, che siano assunte nuove iniziative per una ridefinizione del ruolo della NATO e delle armi nucleari in Europa, c.d. “strategiche”, con l’ipotizzato ritiro dei missili, argomento della diatriba tra Washington e Mosca, nell’ambito di una nuova visione dei rapporti internazionali, in un Mondo multipolare, con il ruolo ONU di garante del rispetto del diritto internazionale.
Sotto questo profilo della garanzia dell’ONU, è stata anche dibattuta la questione, senza dubbio più complessa, riguardante i più importanti aspetti della militarizzazione dello spazio. Essa ha indubbiamente suscitato e suscita naturalmente tuttora il più vivo allarme, uno stato d’animo comune alle Cancellerie di Mosca e Pekino, che hanno diffuso preoccupazione e contrarietà per le iniziative con cui Washington ha avviato ormai da tempo i programmi di sviluppo dei processi tecnologici di difesa missilistica cosmica, in barba al diritto internazionale spaziale che vieta in modo espresso e tassativo (art.1, comma 2° ed art. 3 del Trattato del 27 Gennaio “67) attività non conformi alla Carta dell’ONU e non in linea con la tutela della pace e della sicurezza internazionale, da un lato, e della cooperazione e comprensione tra gli Stati, dall’altro.
Queste motivazioni sono alla base anche della lettera e dello spirito di tutto il Trattato e riguardano anche gli artt. 4 ed 11 di esso ed indirizzano gli Stati solo ad attività pacifiche nello spazio extra-atmosferico e questi principi basilari in verità costituiscono la ratio di tutto l’importante documento. Da questo punto di vista non si ravviserebbe pertanto, in base all’interpretazione più logica dell’intera architettura del fondamentale atto, alcun motivo per procedere ad ulteriori precisazioni ovvero per la stesura di nuovi Trattati, per delimitare di nuovo gli spazi eventualmente permissivi di una nuova legislazione internazionale sull’esplorazione a carattere scientifico, del Cosmo.
È pero un fatto accertato che gli Stati Uniti hanno sviluppato potenziali sistemi di attacco dal punto di vista militare, come i sistemi laser, cinetici ed a fascio di particelle, che possono detenere un doppio scopo, sia difensivo che offensivo.
La superiorità nella guerra convenzionale ha richiesto per potersi proporre di avere bisogno della tecnologia militare spaziale, quale per esempio, quella che permette ai satelliti l’attività di intelligence, il telerilevamento, e via dicendo.
Dobbiamo soggiacere allora all’etica del dominium e della minaccia o a quella della difesa ragionevole e semplice? La corsa agli armamenti nello spazio ha effetti distruttivi per l’umanità sia per la pericolosità in sé stessa di tali armamenti, sia per la notevolissima distrazione o sottrazione di risorse economiche, richieste per la messa a punto di tali mezzi tecnici, sia per lo sconvolgimento dell’intero ecosistema, provocato comunque dal loro uso. La diffusione di tecnologie per la difesa spaziale riverserà anche un drastico disincentivo alla ricerca di nuovi accordi per nuove regole in materia di armamenti e di nuove regole sulla non proliferazione delle armi nucleari. Di fronte allo sviluppo della tecnologia spaziale, le proposte russo-cinesi per giungere ad un progetto condiviso di Trattato per la prevenzione del collocamento di armi nello spazio, ovvero per la prevenzione della minaccia o dell’uso della forza, contro oggetti spaziali, è una lodevole iniziativa, che fa valere tutte le sue ragioni per essere condotta in porto, con urgente indifferibilità. Un nuovo trattato sulla materia non può che aiutare la politica e lo scopo di essa affinché sia la tecnologia a beneficio della civiltà e non invece la civiltà posta schiava della tecnologia. Questo sacrosanto, fondamentale principio di civiltà morale rappresenta l’argomento fulcro per la proposizione di accordi sulla riduzione bilanciata degli armamenti e per la riduzione, sempre bilanciata, delle basi militari. Il Presidente Trump ha quindi davanti a sé il tempo utile, prima della fine del mandato nel 2020, per dar vita ad una nuova diplomazia multi-polare, tra gli Stati Uniti, la Russia e la Cina, improntata alla ricerca di nuovi accordi in questi settori. Una strategia diplomatica a tre poli come quella di Nixon, altro presidente repubblicano nel 1972, dopo che si è potuto constatare, come abbiamo visto, il tramonto, con l’archiviazione, della strategia statunitense che presentava il Paese come unica grande Potenza planetaria.
Anche la recente interruzione del vertice di Hanoi e l’avvenuto rientro in patria dei due leader, il Presidente Donald Trump e quello nordcoreano, Kim Jong-Un, senza la preventiva messa in opera di alcun accordo, ha lasciato immaginare – al di là delle comunicazioni ufficiali diffuse tramite i canali di Stampa – l’ipotesi che ad aver costituito un serio ostacolo per il successo dei colloqui possa essere stato in qualche modo il ruolo di Pekino, storico alleato di Pyongyang. Infatti, dietro l’apparente, serio disaccordo tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord sul numero dei siti missilistici nucleari da smantellare (sette o dodici?), le basi dei sottomarini e gli impianti ed i reattori nucleari della penisola asiatica da un lato, e la somma delle sanzioni economiche che gli americani s’impegnavano a rimuovere, dall’altro, è stata intuita e percepita la presenza della Cina, che non avrebbe visto di buon grado un accordo tra i due Paesi, protagonisti delle trattative, mentre era in corso altra importante discussione sulle tariffe doganali, proprio tra Washington e Pekino. Insomma, psicologicamente o meno, il gigante asiatico ha certamente condizionato la conclusione di un accordo tra il suo storico alleato e gli Stati Uniti forse, più di quanto lo stesso Presidente Trump abbia potuto ritenere, in quel particolare momento dal suo punto di vista, di dover invece anteporre un accordo conclusivo col gigante asiatico sui dazi doganali, rispetto a quello in itinere, avviato con Pyongyang.
Questa meditata decisione, di entrambi, i Paesi, Washington e Pyongyang di sospendere l’incontro al vertice, con le delegazioni al completo, in attesa della definizione delle trattative tra gli Stati Uniti e la Cina, fa ritornare in mente a distanza di molti anni il 1962 e l’inizio della politica di liberalizzazione del commercio, con la discesa al minimo delle tariffe doganali che il Presidente John Kennedy espose appunto agli americani ed agli alleati, proponendosi il doppio fine di aiutare il commercio a procedere più spedito ed allo stesso tempo di poter giungere con analoga facilità a cogliere specifici accordi internazionali, in altri settori ovvero in altre differenti aree del mondo. Il dialogo tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord continua, anche se ha inevitabilmente dovuto registrare un rallentamento. Se, quindi, la strategia multi-polare del Presidente Trump fa riferimento ad un importante aspetto della politica estera di Richard Nixon, che la inaugurò appunto nel 1972, tutto quello che concerne i rapporti con gli Alleati ed il ruolo della NATO, fa risalire invece il pensiero alla seconda parte dell’Amministrazione Kennedy ed alle proposte del Presidente della “Nuova Frontiera” rivolte ad una ridefinizione della funzione dell’Alleanza Atlantica, già allora ritenuta meritevole di essere riesaminata nell’ambito dei nuovi rapporti politici e di difesa, successivi alla Guerra Fredda.
Come John Kennedy nel 1961, anche Donald Trump ha posto più volte agli Alleati il tema del riequilibrio delle spese di mantenimento dell’Organizzazione difensiva, con un maggiore contributo europeo, ricevendo però risposte piuttosto fredde. Oggi il Presidente avverte la necessità di una nuova dimensione della NATO, ma probabilmente vuole prima giungere a significativi accordi con Mosca e Pekino sull’assetto geo-politico del Mondo. In fin dei conti, in uno scenario esclusivamente bipolare, quale fu quello del “63 per l’Amministrazione Kennedy, ricordiamo che la proposta della MLF prese corpo significativamente e trovò riscontri positivi soprattutto dopo il Patto di Mosca anglo-russo americano, per la limitazione degli esperimenti nucleari.
Molto probabilmente allora il Presidente Trump, prima di mettere in atto qualunque riforma della NATO, preferirebbe poter sottoscrivere qualche significativa intesa politica con Mosca e Pekino sugli assetti mondiali, dopo il lungo periodo successivo al crollo del Muro di Berlino, in cui gli americani si erano proposti come gli unici tutori del Pianeta. Se si vuole dunque far riferimento alla dottrina c.d. di politica estera della “risposta flessibile”, secondo l’autentica interpretazione di essa, che espose a suo tempo il Presidente John Kennedy, cioè l’uso misto di diplomazia e forza militare con netta prevalenza della diplomazia sull’altra componente, più di tutti i successori del Presidente della “Nuova Frontiera” alla Casa Bianca, è stato fino ad oggi Donald Trump il Capo dell’Esecutivo che più fedelmente ha riprodotto e riportato la dottrina della “risposta flessibile” secondo la specifica traccia applicativa che per primo fece di essa il Presidente John F. Kennedy. Con riferimento alla politica medio-orientale statunitense, con molta prudenza è in corso un nuovo orientamento politico, su cui probabilmente la Casa Bianca non è al momento ancora in grado di rilasciare dichiarazioni o comunicati.
In politica interna, l’Esecutivo – come aveva promesso – ha fatto approvare dai due rami del Congresso la riforma fiscale, già entro il primo anno di vita dell’Amministrazione ed ha speso un importante contributo per la ripresa economica del Paese, tanto attesa. Le previsioni fanno riferimento ad un decremento delle entrate fiscali, previsto nell’arco di dieci anni, fino al 2026 di un miliardo e mezzo di dollari, in cambio di una crescita del PIL fino al 4%. La riduzione fiscale ha interessato in misura maggiore il prelievo sugli utili d’impresa, sceso dal 35 al 21 per cento, a favore di tutte le aziende di tutte le categorie e dimensioni.
Il risparmio fiscale interessa anche le classi più elevate e passa dal 39,6% al 37%. Con la formula dello scudo fiscale, molte multinazionali hanno avuta concessa la possibilità di far rientrare nel Paese i capitali trasferiti all’Estero, versando solo un prelievo una tantum del 7,5%. Secondo le stime dell’Amministrazione, una famiglia con reddito annuo di 75.000 dollari, risparmierà con la riforma più di 2.000 dollari di tasse, che potrà reinvestire nel circuito produttivo. La riforma fiscale ha già assicurato i primi risultati positivi, rilanciando la produzione con l’immissione sul mercato di una maggiore quantità di dollari da spendere, a favore dei consumatori.
L’altra grande iniziativa dell’Amministrazione, cioè il piano per le infrastrutture e l’ammodernamento del Paese, al momento non è ancora stata sviluppata pienamente e secondo le attese della Casa Bianca. D’altro canto l’ambizioso piano prevedeva di reperire la cifra totale per gli investimenti di 1,5 trilioni di dollari, oltre ai 200 miliardi, messi a disposizione dal governo federale. Ovviamente, il piano non si riferisce solo alla rimessa a nuovo delle infrastrutture del Paese (strade, ponti, ospedali, aeroporti e via dicendo) ma riguarda anche opere pubbliche vere e proprie, come la gestione dei sistemi di potabilizzazione delle acque, la gestione delle acque reflue, i corsi d’acqua navigabili, la gestione delle risorse idriche ed energetiche, le infrastrutture rurali, le terre pubbliche, gli ospedali per i veterani e via dicendo.
Come l’analogo piano kennediano del 1961 – 1963 di ammodernamento del Paese, anche il presente piano ideato da questa Amministrazione prevede il lancio di programmi di apprendistato in grado di formare forze di lavoro specializzate. È quindi appropriato attribuire alla prossima campagna elettorale di questo Esecutivo repubblicano il programma denominato “Pace e prosperità” che fu di Roosevelt negli anni ’30 e che era stato ripreso da John Kennedy all’avvio della campagna per la rielezione alla Casa Bianca, per il 1964, e tragicamente interrotta.
A distanza di tanti anni, finalmente ritorna il Presidente che si occupa dei problemi della gente comune e che è vicino ai bisogni reali del Paese, in tutte le sue classi. Le iniziative in materia economica e sociale, approntate dall’Esecutivo hanno già risollevato la Nazione dalla disoccupazione ed aumentato la produzione industriale. Non solo, quindi, la ricetta Trump si è rivelata esatta, ma l’Amministrazione ha mantenuto le promesse di rifare grande l’America. Tutto questo costituisce il miglior manifesto elettorale per la rielezione del Presidente, che parte in netto vantaggio (“Front runner”) per la rielezione alla Casa Bianca.
La politica torni ad occuparsi della gente comune! Potrebbe essere questo lo slogan dominante della futura organizzazione elettorale, ma lo è già fin d’ora se si riflette sui valori morali. Sotto questo profilo certamente la maggioranza del Paese ha approvato la scelta dell’Amministrazione di definire il genere dei cittadini, basandolo solo sul sesso individuato alla nascita. Una importante svolta, dopo l’eccesso di libertà, garantito da Obama alle persone, con l’autorizzazione alla medicina ed alla chirurgia, a procedere verso i mutamenti di sesso più inimmaginabili.
Sebastiano Catalano