Tre Paesi europei al voto nei giorni scorsi – Slovacchia, Turchia, Ucraina –, altre votazioni programmate in queste ore (a Westminster sul Brexit), prossime elezioni in vista, il 23-26 maggio, per rinnovare il Parlamento di Strasburgo. La democrazia europea prende mille rivoli, porta alla ribalta volti nuovi, lancia segnali differenti. Possibile trarne chiavi di lettura generali? Difficile immaginarlo, anche perché ogni Paese mostra vicende politiche molto specifiche. Eppure qualche elemento comune si può intravvedere.
Bratislava e i Visegrad. Anzitutto i fatti. In Slovacchia i cittadini hanno scelto la nuova presidente della Repubblica, Zuzana Caputova. Una donna (si potrebbe anche aggiungere: finalmente!) per la prima volta nella carica più alta a Bratislava, giovane avvocatessa, divorziata, madre di due figli, nota per le sue battaglie a favore dei diritti individuali e collettivi e per le battaglie contro mafie e corruzione. Una europeista convinta in un Paese che fa parte del gruppo di Visegrad, assieme a Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca:chissà che l’elezione della Caputova non indichi una incrinatura nel quartetto di Paesi sempre riluttanti verso l’integrazione europea, pur essendo tra i massimi beneficiari dei fondi strutturali provenienti dalle casse Ue.
Il presidente del Consiglio europeo, il polacco Donald Tusk, non ha perso l’occasione per una riflessione pubblica inviando alla neo presidente un messaggio di auguri: “Sono particolarmente lieto di vedere un voto così forte, nel cuore dell’Europa, a favore della dignità politica, dello stato di diritto e della tolleranza”. Tusk vi legge un “inequivocabile sostegno a un cammino europeo ed euroatlantico” della Slovacchia (che fra l’altro già aderisce all’euro, a differenza dei vicini di casa) e “un segnale positivo” rispetto al “cinismo delle politiche di potere e alle false promesse del populismo”. Un messaggio dai toni positivi anche quello di mons. Stanislav Zvolensky, presidente della Conferenza episcopale slovacca, che afferma: “mi auguro che la nuova presidente difenda i valori fondamentali che stanno alla base della nostra società e che lavori per la promozione e il rafforzamento del bene comune sulla base dei principi cristiani”.
Urne a Kiev, sguardo a Mosca. Altra aria si respira in Ucraina, che nel fine settimana ha visto il primo turno delle elezioni presidenziali: dalle urne è emerso primo il comico Volodymyr Zelenskiy, in testa con il 30 per cento dei voti, seguito dal presidente uscente, l’europeista e anti-russo Petro Poroshenko, al 17%; terza, ed esclusa dal ballottaggio del 21 aprile, l’ex premier Julija Tymoshenko (13%). Zelensky è noto al grande pubblico per essere il protagonista del programma tv satirico “I servi del popolo”, dove interpreta una persona del popolo diventata presidente.Zelensky è di lingua russa e ha ottenuto sin dall’inizio l’esplicito e ingombrante appoggio del potente uomo d’affari ucraino Ihor Kolomoysky,non nuovo a posizioni politiche non sempre trasparenti. Poroshenko aveva fatto grandi promesse, non sempre mantenute: a partire dalla ripresa economica che avrebbe portato un miglioramento della vita quotidiana dei cittadini. Ma al contempo si è mostrato fermo rispetto alle pretese russe su parte del territorio ucraino, e un personaggio-ponte tra Kiev, Unione europea e Nato. Zelensky, neofita della politica, saprebbe tenere insieme la nazione e fare da contraltare a Vladimir Putin?
I turchi, le città e Erdogan. Terzo Paese alle urne, questa volta per le elezioni amministrative, la Turchia, Stato a cavallo tra Europa e Asia, oggi guidato da Recep Tayyp Erdogan, presidente ormai insofferente verso regole ed equilibri democratici, con la mano pesante sulle opposizioni interne e soprattutto nei riguardi delle minoranze (curdi in primis), non di meno figura ingombrante sullo scacchiere mediorientale. Ebbene,il voto delle municipalità indica che il suo partito, Akp, ha perso la guida delle due principali città del Paese, la capitale Ankara e la moderna Istanbul.Non è certamente un segnale sufficiente per stabilire che Erdogan ha perso il controllo dell’elettorato, ma di sicuro si tratta di una battuta d’arresto alla sua politica muscolare, repressiva e antieuropea.
Tratti in comune? Quali, dunque, i possibili tratti in comune tra queste elezioni? Forse si potrebbe rilevare una tendenza anti-establishment che, senza distinzione di colori e partiti, si riversa contro i leader di turno e le forze al governo. Ugualmente si sperimenta una polarizzazione crescente della politica: sbiadisce la volontà di coltivare ambiti di incontro, spazi di confronto e di sfida sul piano di valori, idee e progetti, mentre si cerca lo scontro, giocato per lo più su slogan semplicistici e costruzioni di mura e fossati tra le parti, con un atteggiamento che assomiglia sempre di più al tifo da stadio.Si chiami populismo o altro, ma questa caratteristica ricorre ovunque.
In tutto ciò, i social hanno ormai un peso rilevantissimo, la forza di convincere senza argomentare. Imponendo – altro elemento da considerare – nuovi protagonisti, non sempre all’altezza del ruolo istituzionale per il quale concorrono. Non da ultimo – e finalmente un fattore positivo – si può considerare qualche ripresa dell’affluenza alle urne che, secondo alcuni osservatori, potrebbe verificarsi anche alle prossime europee di maggio: quando la tensione sale e il dibattito (ancorché superficiale) si surriscalda, qualche cittadino in più potrebbe decidersi di recarsi ai seggi per far sentire la propria voce. È un dato ancora da verificare, ma potrebbe trattarsi di un fattore non secondario della nuova era politica plasmata dai social.
Gianni Borsa