Alla fine il governo del Movimento 5 Stelle e della Lega è nato. A voler essere precisi è con il giuramento di questo pomeriggio che il nuovo esecutivo assumerà i suoi poteri. Ma dopo i continui colpi di scena e i continui rovesciamenti di fronte dei quasi tre mesi che sono passati dal voto del 4 marzo, stavolta non ci possono essere più sorprese né cambiamenti di idea. Un governo politico che più politico non si può, visto il ritorno alla grande del ruolo dei partiti e la presenza come vicepremier dei due leader, Luigi Di Maio e Matteo Salvini (che saranno anche ministri, il primo al Lavoro, il secondo all’Interno). Eppure guidato ancora una volta da un tecnico, il professore Giuseppe Conte, da un “non eletto dal popolo” se si vuole usare una terminologia tanto in voga quanto impropria, in una democrazia parlamentare come la nostra.
Un governo che rispecchia la volontà degli elettori in quanto costituito dai partiti che sono stati nettamente premiati dal voto, pur non essendo in senso stretto i vincitori (altrimenti non ci sarebbero voluti 88 giorni per formare l’esecutivo) e che tuttavia per vedere la luce ha reso necessaria la scomposizione – definitiva o temporanea si vedrà – della coalizione di centro-destra che era risultata la più votata.
Un governo che nasce tra un’attesa di cambiamento spasmodica e timori interni e internazionali di almeno pari intensità, entrambi alimentati da una nuova (almeno in parte) classe dirigente e da un programma (l’ormai famoso “contratto”) su cui solo la prova dei fatti potrà dire una parola definitiva. Non è soltanto una questione di congruità e di coperture finanziarie, ma delle idee-forza che sono alla base di quel documento e che vanno inevitabilmente lette alla luce delle dichiarazioni pubbliche dei due partiti, in cui spesso gli obiettivi di fondo sono espressi più chiaramente.
La composizione dell’esecutivo rispecchia tutto sommato i rapporti tra i due partiti che lo sostengono. Le Lega in proporzione ha più ministri, ma in questi conteggi (sempre difficili da dettagliare) occorre tener conto che il presidente del Consiglio è sostanzialmente espressione del M5S: compariva già nella lista del governo che Di Maio aveva presentato prima delle elezioni. Nel ministero-chiave dell’Economia è andato Giovanni Tria, docente all’università di Roma Tor Vergata e presidente della Scuola nazionale dell’amministrazione pubblica, mentre Paolo Savona è finito alle Politiche europee: un ministero senza portafoglio che al di là del nome non ha un’incidenza forte, anche se è facile immaginare che l’anziano professore anti-euro non si darà per vinto. Per un altro ministero-chiave, quello degli Esteri, è stato scelto Enzo Moavero Milanesi, profilo di europeista a tutto tondo, considerato uno dei maggiori esperti delle istituzioni della Ue, già ministro con Monti e Letta.
Dunque un nuovo governo è nato e sarà giudicato per i suoi atti, senza sconti com’è giusto che sia tanto più per chi si presenta con grandi ambizioni.
Resta il fatto che, come ha detto con rara signorilità Carlo Cottarelli dopo aver rimesso il suo incarico, “un governo politico è una soluzione migliore di un governo tecnico” soprattutto perché quest’ultimo avrebbe riconsegnato il Paese all’“incertezza” di nuove elezioni ravvicinatissime, lasciandoci per giunta drammaticamente scoperti sul fronte internazionale. E se si è arrivati a questo risultato lo si deve essenzialmente al Presidente della Repubblica che è riuscito a gestire una crisi dai risvolti assolutamente inediti e a riportare nei binari della Costituzione energie e forze sempre sul punto di deragliare. E qualche deragliamento c’è proprio stato, se si pensa che solo pochi giorni fa il leader del principale partito di governo aveva invocato la messa in stato di accusa del Presidente per alto tradimento, solo perché questi aveva applicato l’articolo 92 della Costituzione.
E’ finita in burla – ma con queste cose non si dovrebbe scherzare – così come proprio la nascita del governo Conte dimostra la totale falsità della tesi secondo cui sarebbe stato Sergio Mattarella ad avere impedito il varo dell’esecutivo giallo-verde con Savona all’Economia. Il Capo dello Stato, al contrario, attraverso un esercizio autorevole di quella che si potrebbe definire “pazienza istituzionale”, ha reso possibile un accordo che è stato sempre in salita a causa dello scontro politico tra le due principali forze in campo. E’ stato “un complesso itinerario”, come lui stesso ha chiosato ieri sera salutando i giornalisti al Quirinale con una leggera espressione di sollievo. Vale la pena di ricordare i tre giri di consultazioni a tutto campo, i due mandati esplorativi ai presidenti della Camere per sondare le possibilità di intesa prima tra centro-destra e M5S poi tra quest’ultimo e il Pd.
Per ben due volte Mattarella ha tenuto in stand by il governo d’emergenza che aveva prospettato di fronte allo stallo, la prima volta dopo averlo annunciato, la seconda dopo aver addirittura conferito l’incarico a Cottarelli.
E questo perché M5S e Lega chiedevano ulteriore tempo per potersi accordare.
Si può stare certi che, anche nella nuova fase che si apre ora, il Capo dello Stato non mancherà di esercitare pienamente e con lo stile che lo caratterizza il ruolo di garanzia che la Costituzione gli attribuisce. Il governo nasce alla vigilia della festa della Repubblica. Una pura coincidenza ma di quelle che mandano un messaggio: il Paese ha un enorme bisogno di recuperare il senso di una casa comune in cui tutti possano ritrovarsi a prescindere dagli orientamenti politici. A costo di apparire ingenui, non neghiamoci almeno la speranza che tutti, ma proprio tutti si adoperino in questo senso.
Stefano De Martis