La nuova legge regolamenta le unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina le convivenze di fatto. Nel primo caso l’unione viene definita come “specifica formazione sociale” per differenziarla lessicalmente dal matrimonio civile, anche se poi tutta la disciplina è sostanzialmente costruita in analogia con quest’ultimo. Per “conviventi di fatto” si intendono “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.
“Un compromesso al ribasso”. Così il presidente emerito della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli, ha definito la nuova legge che regolamenta le unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina le convivenze, come recita il titolo completo del provvedimento, approvato l’11 maggio a Montecitorio con 372 voti a favore, 51 contrari e 99 astenuti. Una normativa che è stata oggetto di critiche, da parte cattolica e non solo, sia per quanto riguarda il contenuto che per il metodo dell’approvazione a colpi di “fiducia”. Numerosi giuristi, di diverso orientamento, hanno colto decine di problemi tecnici che forse si sarebbero potuti evitare con un dibattito più approfondito e meno incalzato dall’urgenza del risultato politico.
Vediamo comunque gli aspetti principali della legge, cominciando da quelli relativi alle unioni civili tra persone omosessuali, contenuti nella prima parte del testo. Al punto 1 si definisce l’unione come “specifica formazione sociale” per differenziarla lessicalmente dal matrimonio civile, anche se poi tutta la disciplina è sostanzialmente costruita in analogia con quest’ultimo. A cominciare dal rito, una “dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile e alla presenza di due testimoni”. L’ufficiale dello stato civile provvede a registrare l’atto. Le parti – precisa la legge dopo aver elencato le potenziali cause di nullità – possono stabilire di assumere un cognome comune per la durata dell’unione, scegliendolo tra i loro cognomi, e ciascuna parte può anteporre o posporre anche il proprio cognome a quello comune. Per mettere fine all’unione è sufficiente che le parti, anche disgiuntamente, dichiarino la volontà di scioglimento davanti all’ufficiale di stato civile.
Dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e alla coabitazione, non quello della fedeltà che pure compariva in un primo testo.
“Entrambe la parti – recita ancora la legge – sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni comuni”. Le stesse parti “concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune”. Qui il riferimento alla famiglia è esplicito e non a caso si tratta di un altro dei punti più controversi. Salvo diversa decisione, il regime patrimoniale è quello della comunione dei beni. Per altri aspetti economici, come la pensione di reversibilità e la successione, valgono in pratica le norme previste dal codice civile per il matrimonio. Del resto, al punto 20, si stabilisce che le disposizioni che si riferiscono al matrimonio o in cui compaiono le parole “coniuge”, “coniugi” o equivalenti, si applicano anche a ciascuna delle parti dell’unione civile. E ciò vale per tutti gli atti normativi, dalle leggi ai regolamenti amministrativi e ai contratti collettivi.
Viene esclusa la legge sulle adozioni e quindi la cosiddetta stepchild adoption (l’adozione del figlio del partner) anche se resta valida la possibilità che i giudici decidano caso per caso come avviene già ora, ma potendo comunque tener conto del nuovo istituto dell’unione civile nella valutazione delle situazioni particolari.
A partire dal punto 26 la legge si occupa dei “conviventi di fatto” intendendo con questa espressione “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”. Ai conviventi vengono riconosciuti gli stessi diritti del coniuge previsti dall’ordinamento penitenziario, quelli relativi alla malattia o al ricovero e, in caso di morte, alle decisioni relative alla donazione degli organi, al trattamento del corpo e ai funerali. Sempre in caso di morte di uno dei conviventi, se il deceduto era il proprietario della casa di comune di residenza, il superstite ha diritto ad abitare nella stessa casa per due anni o per un periodo superiore pari alla durata della convivenza e comunque non oltre i cinque anni. Nel caso di figli minori o disabili, il diritto di abitazione non può essere inferiore a tre anni. Il convivente superstite ha anche la facoltà di subentrare in un eventuale contratto di locazione. Le coppie di fatto partecipano all’assegnazione di case popolari allo stesso titolo delle coppie coniugate. I due partner di una coppia di fatto possono regolare i rapporti patrimoniali mediante un “contratto di convivenza” in forma scritta, presso un notaio o un avvocato. Tale contratto può contenere l’indicazione della residenza, le modalità di contribuzione alla vita comune, il regime della comunione dei beni. Il suo scioglimento può avvenire per accordo tra i conviventi, per il recesso unilaterale di uno di essi, oppure per matrimonio o unione civile tra i due o di uno con altra persona, oltre che in caso di decesso. In caso di scioglimento, se uno dei conviventi non è in grado di provvedere al proprio mantenimento, il giudice può stabilire che l’altro versi un assegno di mantenimento per un periodo proporzionale alla durata della convivenza.
Stefano De Martis