La data fatale, dopo la quale nulla sarebbe stato più come prima, fu il 1977 della Febbre del sabato sera, quando un azzimato, dorato, strizzato, incollettato Travolta lanciò il ballo come affermazione di una nuova estetica, di un gesto da immortalare sulle pagine dei giornali, una posa che bucasse lo schermo e l’immaginario collettivo di allora. Poi il resto è storia e talvolta cronaca nera
Correvano gli anni Settanta. Una parola era ormai entrata nella lingua comune. Indicava una o più piste da ballo che lentamente slittavano dai sonnolenti pomeriggi balneari alle agitate notti metropolitane, senza – inaudito e insieme coraggioso per quel tempo – gruppo musicale o cantante sul palco. Il protagonista non era più il bel chitarrista della band del momento o lo specialista in cover, né tantomeno l’orchestra di liscio. No, il campione notturno era un capelluto ragazzo che mescolava, su due o più piatti, piste sonore che all’inizio erano successi rock, blues, o lenti di stagione, e che pian piano diventarono pezzi progettati per quello specifico uso. La discoteca era appena nata, ma già non era più lei: diventava adulta, dopo aver fatto tesoro delle prime sperimentazioni, a cominciare dai Cinquanta, a Parigi (Chez Regine), e un po’ più tardi nella New York di Studio 54, e aveva fatto follie anche in Italia, a Gabicce, Forte dei Marmi, e all’Isola d’Elba che probabilmente, con il Club 64, le ha dato i natali: luci mobili, dj (che sta per disk-jockey), piatti, niente cantanti “umani” sul palco, solo dischi sparati a centinaia di decibel dentro i timpani dei presenti.
Una foto apparsa su un settimanale dei primi Settanta è più esplicativa di ogni tentativo di sociologia della discoteca: un ragazzo e una ragazza, distinguibili dalla minigonna di lei, perché i capelli sono della medesima lunghezza, teneramente abbracciati durante uno dei sempre più rari lenti all’interno di una discoteca. In realtà il lento in questione, notava lo scandalizzato articolista, era sparato a un volume assordante e non dolcemente sussurrato da un cantante confidenziale come la foto potrebbe far pensare.
Erano le ultime apparizioni del ballo della mattonella. Da allora in poi le luci stroboscopiche avrebbero lasciato intravedere solo avvitamenti, scuotimenti, salti, accompagnati da quella disco-music che poi avrebbe lasciato il posto alla house, alla tecno, alle infinite declinazioni dell’hip pop e della break dance.
La data fatale, dopo la quale nulla sarebbe stato più come prima, fu il 1977 della Febbre del sabato sera, quando un azzimato, dorato, strizzato, incollettato Travolta lanciò il ballo come affermazione di una nuova estetica, di un gesto da immortalare sulle pagine dei giornali, una posa che bucasse lo schermo e l’immaginario collettivo di allora. Era il riscatto di una gioventù che non aveva precisamente in mente l’impegno politico, le nuove tendenze della psicoanalisi dopo Lacan o l’ultimo libro di Sartre. Erano ragazzi come tanti, senza grosse ambizioni intellettuali, che giocavano la loro affermazione sul ballo, sul ritmo, sull’adrenalina.
La discoteca diventava mito, luogo di risoluzione dei complessi, delle paure, delle debolezze, e il dj era il nuovo nume tutelare. Dal sincronismo tra lui, il ballerino di punta, gli altri in grado di scaldare l’ambiente e di dettare ritmi e movimenti e il resto dei ragazzi dipendeva il destino della discoteca, che poteva diventare trend o rifugio di seconda classe. Lo stesso mitico Piper di Roma si sarebbe trasformato, con grande scandalo di alcuni, in discoteca. Il night club era ormai divenuto il luogo per danarosi matusa che ballavano al ritmo archeologico di standard suonati da ottoni, contrabassi e pianoforti. Sai che sonni, pensavano i novelli Nureyev dei Settanta.
Conflitti generazionali: cambiano le forme, rimangono le inevitabili differenze dettate dai tempi, dalle età, dai gusti e dalle culture, oltre che dalla sensibilità personale. Perché non era difficile ritrovare amanti dell’hustle (una forma di disco-music lanciata in quegli anni da Van McCoy) al concerto dei Pooh in zona.
Rimanevano i concerti dal vivo che riconciliavano rocchettari, social-impegnati, disco-dipendenti, tradizionalisti. Baglioni, ma anche Emerson Lake & Palmer: era questo l’apparente paradosso dell’età delle discoteche, che ha avuto tra i Settanta e gli Ottanta il suo apice.
Lo spirito del tempo non si traduce mai in una moda assolutistica, ma lascia intravedere profondità e contraddizioni che i media non sempre riescono – o vogliono – cogliere.
Marco Testi