L’assegnazione del Premio Nobel per la pace all’Unione europea giunge – inutile negarlo – in un momento particolarmente difficile per l’integrazione comunitaria, minacciata dalla crisi economica, dal risorgere dei nazionalismi, da qualche evidente debolezza interna, specialmente sul fronte istituzionale e su quello del rapporto con i cittadini. Ma la decisione unanime del Comitato norvegese che assegna il massimo riconoscimento ai costruttori della convivenza pacifica, se da una parte stupisce (lo hanno ammesso a chiare lettere alcuni responsabili dell’Unione), dall’altra suona come un giusto riconoscimento storico.
L’Europa comunitaria infatti è stata, e rimane, una grande area di pace e di democrazia, e ha contribuito a ricostruire, nel segno della “fraternità delle nazioni”, un continente (o ampia parte di esso) uscito distrutto e diviso dalla seconda guerra mondiale. E quando la forzata e triste divisione dell’Europa – segnata per decenni dalla minacciosa presenza della Cortina di ferro e dei sistemi comunisti – è stata superata, i Paesi dell’ex blocco sovietico si sono subito rivolti alla Comunità, avvertendola come un vicino affidabile, un solido aggancio allo Stato di diritto e un generoso partner sulla via della rinascita sociale ed economica.
La storia dell’integrazione europea narra dunque di un grande “sogno” di pace, che ha preso forma grazie al pensiero di pochi intellettuali, letterati ed eroi risorgimentali soprattutto a partire dal XIX secolo, compiendo però i primi veri passi politici dagli anni Cinquanta del Novecento. Pochi, illuminati politici di allora, fra i quali i cattolici Robert Schuman (Francia), Konrad Adenauer (Germania) e Alcide De Gasperi (Italia), seppero trasformare l’ideale della convivenza pacifica, fondata su valori condivisi, in piccole e progressive acquisizioni istituzionali, passando anzitutto per la via della cooperazione economica, per poi estendere il progetto alla coesione sociale, alla cultura, alla ricerca, allo sviluppo territoriale, ai diritti individuali e sociali, all’“azione esterna”.
È proprio questo processo politico, irto di difficoltà ma anche prodigo di successi, che il Nobel intende valorizzare e portare ad esempio al resto del mondo. “Per oltre sessant’anni” l’Europa comunitaria, si legge nella motivazione, “ha contribuito all’avanzamento della pace, della riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani in Europa”. Il card. Reinhard Marx, presidente della Comece (Commissione degli episcopati della Comunità europea), non a caso ha affermato che questo Nobel “è un segnale chiaro che conferma come l’Europa, secondo le parole di Jean Monnet, può essere un contributo a un mondo migliore”. L’arcivescovo di Monaco ha aggiunto: “Nonostante tutti i problemi con i quali ci stiamo confrontando in Europa, questo Premio ci ricorda fino a che punto l’integrazione europea ha contribuito allo sviluppo pacifico del nostro continente e quale parte essenziale vi hanno assunto i cristiani che si sono impegnati politicamente al servizio di questo progetto”.
Ovviamente il Premio impegna ulteriormente l’Ue sul versante della pace e, ugualmente, alla difesa dei diritti fondamentali, che spaziano dalle libertà personali alla dignità umana, dalla giustizia sociale e dalla solidarietà alla vita, dalla famiglia alla valorizzazione della diversità culturale. L’Unione come “comunità di valori” deve inoltre sentirsi chiamata ad aprirsi ai Paesi europei che ancora non ne fanno parte e a collaborare con le altre regioni del pianeta per uno sviluppo globale e integrale fondato sul bene comune. Insomma, questo premio non può essere inteso come un punto di approdo, ma è semmai uno stimolo e un monito ad andare avanti con determinazione.
Sir Europa