La previsione del presidente dell’Inps Boeri è stata che per i 30-35 enni la pensione arriverà dopo i 70 anni e che sarà inferiore del 25% rispetto a quella odierna di pari anzianità contributiva. Cosa ne pensano Furlan (Cisl), Luzzi (Sias-Mcl) e le Acli. Puntare al “secondo pilastro” pensionistico, evitare il “lavoro nero”, riformare la legge Fornero, queste alcune delle soluzioni proposte.
Lontani i tempi in cui si andava in pensione con il famoso binomio 57 anni di età e 35 di contributi. O quando le pubbliche dipendenti si ritrovavano l’assegno pensionistico con soli 19 anni 6 mesi e 1 giorno di servizio, a qualsiasi età! Quelli erano gli anni del Bengodi in Italia. Oggi, invece, il presidente dell’Inps, Tito Boeri, prevede che i giovani nati negli anni ’80, cioè quelli che hanno tra i 25 e i 35 anni, secondo le proiezioni disponibili potranno andare in pensione tra i 70 e i 75 anni e percepiranno un assegno pensionistico mediamente – ha detto – più basso del 25 per cento rispetto a quello incassato oggi da un pensionato con analoga anzianità contributiva. Apriti cielo! Alle sue parole è scoppiato un “mezzo” finimondo. Mezzo, perché la riforma “Fornero”, in vigore ormai da qualche anno, è diventata talmente famosa per i suoi effetti, da aver reso più o meno tutti consapevoli della duplice penalizzazione introdotta: la prima riguarda l’età pensionabile, alzata d’ufficio per tutti, uomini e donne, ben oltre la media dei 60 anni circa che è l’età in cui si è pensionato il grosso degli italiani assistiti dall’Inps.
La seconda conseguenza è invece rappresentata dall’introduzione del sistema “contributivo” che, a differenza del “retributivo” sino a pochi anni fa vigente in coabitazione col contributivo, calcola l’importo dell’assegno pensionistico sulla base di un insieme complesso di fattori: età, anzianità contributiva, evoluzione della retribuzione, rendimento del “montante” personale collegato all’andamento dell’economia nazionale, oltre al massimale della stessa retribuzione imponibile e all’evoluzione dell’aspettativa di vita. Insomma, un vero rompicapo con il quale oggi è pressoché impossibile se non per approssimazioni rischiose, ipotizzare quale sarà la propria pensione tra dieci, venti o più anni.
Il futuro pensionistico dei “millennials”. In realtà, tra le promesse dell’Inps da qualche anno a questa parte c’era anche quella di inviare a tutti i cittadini la famosa “busta arancione”, con la quale si intendeva fornire il quadro dei versamenti effettuati e una proiezione ponderata sul proprio futuro pensionistico, basata su stime mediane dei parametri di calcolo futuri. Anche se la busta non è mai arrivata, per un cittadino qualsiasi è oggi possibile avvicinarsi alla “verità” della propria pensione. Basta registrarsi sul sito Inps, inserire i propri dati riservati ed ecco che, se tutto è stato inserito per benino, compaiono i versamenti effettuati dal proprio datore di lavoro, gli anni mancanti alla quiescenza e l’importo lordo stimato. E qui viene lo shock provocato da Boeri: i più giovani, che magari hanno da uno a cinque-sei anni di contribuzione essendo attorno ai 30-35 anni, scoprono che dovranno lavorare almeno altri 38-44 anni per arrivare alla soglia demografica prevista che – come detto – si alza di alcuni mesi ogni due-tre anni. Se oggi siamo attorno ai 67 anni, nel giro di un paio di decenni è ipotizzabile che si salirà a 72-74 anni se non oltre. Insomma, una vera incudine sulla testa delle giovani generazioni che un po’ spregiativamente erano state definite “bamboccioni”, “neet”, “millennials”, come non volessero diventare grandi e assumersi le loro responsabilità di uomini e donne del terzo millennio. La nuda verità è che, con la riforma Fornero in vigore, dovranno farsi almeno 40 anni di versamenti per poter sperare di raggiungere una pensione che arrivi al 60-70 % dell’ultimo stipendio. Ma se avessero versamenti discontinui, oppure calanti proprio negli ultimi anni, tale percentuale potrebbe addirittura andare sotto la soglia del 50%. Ci si chiede allora come evitare questo rischio concreto di povertà futura per intere generazioni di giovani di oggi.
Secondo Annamaria Furlan, segretaria generale della Cisl, la risposta è drastica e univoca: “Occorre assolutamente cambiare la legge sulla previdenza in vigore, la Fornero, perché abbiamo bisogno di creare condizioni migliorative per il futuro pensionistico dei giovani e al tempo stesso favorire la flessibilità in uscita per i lavoratori più anziani”. “Questo – ha spiegato – consentirebbe loro di decidere se e quando andare in pensione secondo la loro condizione di salute, di pericolosità e sopportabilità del lavoro, mentre oggi sono costretti a rimanere fino a 66-67 anni prescindendo dall’attività che svolgono”. La segretaria generale della Cisl sottolinea poi che “questa rigidità non solo non tiene conto dei disagi specifici legati a lavori particolarmente usuranti, ma rende pressoché impossibile entrare nel mercato dei lavoro ai più giovani. Il risultato è che abbiamo da un lato oltre il 40% dei giovani ‘fuori’ dal lavoro e gli occupati più anziani costretti a stare ‘dentro’. E’ quindi una riforma che va assolutamente cambiata”. Aggiunge poi che c’è un altro fattore: “I dati Istat dei giorni scorsi parlano chiaro. Oltre il 50% dei trattamenti non arriva a mille euro al mese. Le nostre pensioni sono troppo basse nonostante si sostenga che la media italiana sia accettabile”.
Secondo Alfonso Luzzi, direttore generale del patronato Sias-Mcl, la questione va vista anche rispetto al cosiddetto “secondo pilastro”, soprattutto in rapporto ai giovani 35enni di cui ha parlato Boeri. “Il sistema contributivo non è più una novità da tempo ed è la legge attualmente vigente. Potrà non piacere, ma costringe a pensare a costruirsi la pensione di scorta, iniziando a risparmiare sin da giovani. Ormai ci avviciniamo a un’età pensionabile di 68 anni e fra 20-30 anni tale limite sarà più alto ancora. C’è tempo per pensare a come accantonare piccole cifre ogni mese a fini di pensione integrativa. Ma la condizione è che i giovani puntino a muoversi in un contesto lavorativo di ‘legalità’, evitando il lavoro nero e cominciando presto ad accumulare contributi regolari”. Secondo Luzzi il “Jobs Act con la sua esenzione contributiva per 3 anni alle aziende che assumono va nella giusta direzione per contrastare sia la disoccupazione sia le posizioni irregolari. Sarebbe stato auspicabile una proroga di tali esenzioni nella stessa misura per gli anni successivi, perché si tratta sì di un costo per la collettività, ma di un costo sostenibile e in grado di offrire benefici di lungo periodo superiori all’investimento iniziale”.
Alle Acli presiedute da Gianni Bottalico, il pensiero è che quello che vediamo oggi non è niente rispetto a quando il sistema contributivo sarà totalmente a regime. Per questo l’associazione ha pensato a una proposta di legge per mitigare gli effetti della legge Fornero, specie per coloro che a seguito di infortuni divengono inabili o invalidi, e per i superstiti la cui reversibilità verrà calcolata totalmente con il contributivo. Le proiezioni dicono che tali trattamenti sarebbero ben al di sotto della pensione sociale. Nella proiezione delle Acli il rischio è che dal 2025, quando tutti andranno in pensione col contributivo, assisteremo – se non cambierà il contesto economico e non ci sarà stata la “ripresa” – a un alto numero di pensionati poveri. E questo non è certo un bel futuro.
Luigi Crimella