Progetto d’integrazione / Una piccola barca ha lanciato ponti sul Mediterraneo

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Per quasi tre mesi il progetto ”Clandestine Integration” ha portato, non senza difficoltà, una barca a vela a navigare lungo la sponda sud del Mediterraneo. A bordo artisti di sette Paesi di Africa ed Europa alla ricerca di un’occasione di dialogo

clanp“Il Mediterraneo è oggi un mare proibito, ma allo stesso tempo rimane un’opportunità che non cogliamo. Questo diventa molto chiaro quando uscendo dalla retorica ti metti in viaggio e ti scontri con la realtà”. Gabriele Di Pasquale, trentacinque anni, ha ancora la barba piena di sale e il naso bruciato dal sole quando a Cabras, provincia di Oristano, racconta i quasi tre mesi passati a bordo di Pacchia, una piccola barca a vela di 8,75 metri che ha percorso il Mediterraneo da nord a sud all’intero del progetto culturale “Clandestine Integration” (www.clandestineintegration.org). Con lui un equipaggio misto formato da sedici artisti di Italia, Spagna, Polonia, Egitto, Algeria, Tunisia e Marocco che si sono alternati a bordo durante la navigazione.
Uno spazio di incontro. “Viviamo in un tempo in cui ad essere clandestina è l’idea stessa d’integrazione – spiega Di Pasquale – perché tutto, dalle notizie di cronaca alle decisioni dei governi, sembrano andare nella direzione opposta. Da qui è nato il nome di questo progetto e la volontà di usare una barca come spazio privilegiato di incontro tra le due sponde del mare. Perché chi è a bordo non può scendere ed è obbligato a confrontarsi prima di tutto con se stesso e suoi limiti e poi con l’altro”. Il viaggio, promosso dalla Cooperativa sociale Abracadabra onlus, è stato possibile grazie alla collaborazione di associazioni, Comuni, università (in particolare quelle di Siviglia e Sassari), media partner, piccoli sponsor e privati cittadini che hanno scelto di contribuire alla raccolta del budget, circa 10mila euro, necessario alla riuscita del progetto.
Muri invalicabili. L’avventura è iniziata il 12 giugno scorso da Cartagena in Spagna e ha toccato Marocco, Algeria, Tunisia prima dell’arrivo, sabato 29 agosto, in Sardegna, all’interno dell’area marina protetta penisola del Sinis – Isola Mal di Ventre. Un luogo non casuale: qui si trovano, infatti, i resti dell’antico insediamento fenicio di Tharros, città fondata nell’VIII secolo a.c. da chi aveva scelto il Mediterraneo come la propria casa. “Sulla carta – continua il capitano di Pacchia – sono state duemila miglia nautiche, ma se consideriamo come raramente una barca a vela possa procedere in linea retta, per via dei venti, allora sono state molte di più, forse il doppio. È stata un’esperienza intensa che ora deve essere metabolizzata: penso ai tanti incontri pieni di umanità, ma anche ai rigidi e ripetuti controlli della polizia, alle discussioni, al confronto con l’ostilità marina e all’intimità che si crea con il mare”. Non sono mancati i giorni duri e le difficoltà, ma la solidarietà tra uomini di Paesi, culture e religioni diverse. “Il rimpianto più grande – continua Di Pasquale – è stato il confrontarsi con un mare che sembra proibito. Per molti giorni non abbiamo avuto la possibilità di avere a bordo un contesto multiplo perché le autorità, specialmente in Marocco e Algeria, hanno impedito ai giovani di salire a bordo. A loro africani non era consentito di viaggiare su una barca battente bandiera europea pur restando all’interno del loro Paese”.
Il viaggio continua. Sono molti i volti e le storie rimasti impressi attraverso testi e illustrazioni sul diario di bordo di Pacchia che è stato scritto, a turno, dai diversi protagonisti. Una narrazione a più mani e a più lingue di questo viaggio che diventerà, nei prossimi mesi, un libro. Ma questo è solo uno degli sviluppi di un progetto che, gli organizzatori, sperano possa continuare. “Come diceva un vecchio proverbio cinese: se rompi un cuscino non sai dove vanno le piume – conclude Di Pasquale -. Sono convinto che i risultati di un’esperienza come questa siano poco misurabili. Certo potrà uscire un libro, potranno esserci occasioni di discussione e incontri nei vari territori in cui raccontare quanto vissuto, ma in fondo, nemmeno noi, sappiamo cosa potrà succedere nei prossimi mesi nelle vite dei protagonisti e nelle relazioni che si sono create. E questa è forse la cosa più bella”.
Michele Luppi
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