Per la politica italiana il 2018 si presenta all’insegna di molte incertezze e qualche punto fermo. E se è sempre difficile tentare delle previsioni quando ci sono di mezzo i comportamenti umani, questa volta i margini di oscillazione sono così ampi che l’operazione appare quasi un azzardo. È possibile, però, provare ad articolare delle ipotesi di scenario sulla base degli elementi al momento disponibili. Ed è quello che cerchiamo di fare con Paolo Pombeni, storico e studioso dei sistemi politici tra i più autorevoli del nostro Paese.
Prima di volgerci al futuro, è inevitabile almeno uno sguardo sul 2017. È stato un anno utile, come ha detto il presidente Mattarella?
Un anno utile lo è stato davvero. Innanzitutto va sottolineato come la società civile sia stata in grado di reagire alla crisi. Adesso qualche spiraglio, pur senza eccedere in ottimismo, si comincia a vedere sul serio, sebbene non venga ancora percepito come dovrebbe. Ma anche a livello politico è accaduto un fatto interessante: un governo che doveva essere solo di transizione, con un bassissimo profilo, si è rivelato un ottimo governo.
Non in tutti i campi, certo, ma ha fatto cose buone ed è riuscito a guadagnarsi una credibilità internazionale che non era affatto scontata. Sul piano politico, però è stato anche l’anno in cui sono venute al pettine le debolezze delle forze politiche, direi in qualche modo di tutte, anche delle più piccole, e la frammentazione con cui ci avviamo alle elezioni non è un buon viatico.
Le elezioni, appunto. Se c’è un dato sicuro è che il 2018 sarà un anno elettorale…
Sarà un anno di elezioni per almeno tre motivi. Perché ci saranno le elezioni nazionali, evidentemente. Perché si voterà in alcune regioni molto importanti, sia per la popolazione interessata che per le specificità in gioco. E anche perché è in campo un’ipotesi abbastanza inedita, che cioè si possa tornare a votare a livello nazionale dopo pochi mesi, due volte nello stesso anno solare. Il problema, in questo caso, non sarebbero tanto le elezioni in sé, ma il fatto che non si riesca a capire in quali condizioni si tornerebbe alle urne. Un semplice replay non avrebbe molto senso. D’altronde è molto difficile che si riesca in qualche modo a forzare il risultato con una nuova legge elettorale, anche se quella attuale dovrebbe essere almeno rivista se si vuole evitare una mera ripetizione. Ma abbiamo già sperimentato quanto sia problematico intervenire in questo campo e il rischio è che la politica possa imballarsi come un motore che non riesce a tenere il ritmo, se mi passa quest’espressione. E questo rischio sussiste anche se il governo che sarà in carica dovesse operare bene. Anzi, paradossalmente, a maggiore ragione se questo avverrà, perché nell’opinione pubblica potrebbe affermarsi la pericolosa convinzione che alla fine la politica sia un inutile rituale di cui si può fare a meno.
Nella prospettiva altamente probabile che dalle urne non esca una maggioranza parlamentare definita, che tipo di governo avremo? Tra le ipotesi va per la maggiore il cosiddetto “governo del Presidente” (e in un certo senso sarebbe tale anche un esecutivo Gentiloni prorogato), ma si torna anche a parlare di un governo “tecnico”.
Al di là delle formule, in una situazione di stallo elettorale diventerebbe necessario avere un mediatore e un arbitro e solo il Capo dello Stato potrebbe svolgere adeguatamente questa funzione. In questo senso il presidente Mattarella è una garanzia per il Paese. Anche l’espressione governo tecnico è ambigua. Ci sono politici che sono anche dei bravi tecnici e dei tecnici che sono anche dei buoni politici.
Direi che, tutto sommato, si possa immaginare un governo dal profilo politico non accentuato, anche perché gli stessi partiti, probabilmente, vorranno tenersi le mani libere in vista di una seconda tornata elettorale.
Dovrebbe comunque trattarsi di un governo con personaggi autorevoli, senza figurine di contorno, ed è verosimile che siano chiamate in campo anche le leadership naturali che emergono dalla società civile. Il termine “ordinaria amministrazione” che si usa in questi casi non va interpretato in senso banale. Sarà un esecutivo che dovrà affrontare passaggi molto impegnativi. Penso per esempio alla ridefinizione dell’Europa che nei prossimi mesi arriverà al dunque: è un processo da cui l’Italia non può restar fuori senza compromettere il suo futuro.
Il ritorno di un sistema elettorale a base proporzionale ha riportato in auge il tema delle coalizioni. Ma il discorso su di esse appare molto confuso. Fino a che punto sono vere coalizioni e non semplici accordi elettorali? E come mai in questo processo il centro-destra appare avvantaggiato?
Il discorso sulle coalizioni è confuso perché non tiene conto di come oggi il sistema proporzionale agisca diversamente rispetto al passato che abbiamo conosciuto. Allora era un metodo per contare elettoralmente delle componenti reali della società e dopo il voto alcuni di questi mondi riconoscevano la necessità di trovare un accordo per assicurare un governo al Paese. Ma adesso questi mondi non ci sono più, almeno nei termini in cui esistevano allora, e quindi le coalizioni oggi sono essenzialmente accordi di tribù politiche. Il centro-destra è avvantaggiato perché le sue componenti hanno una maggiore attitudine ad accettare pragmaticamente di stare insieme per conquistare il governo, anche quando le differenze sono molto forti.
Stefano De Martis