Punto di riferimento / L’ospedale cristiano nella striscia di Gaza: un’oasi di pace e assistenza in una terra martoriata

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Nel centro di Gaza City opera, dal 1882, l’unico ospedale cristiano della Striscia. Un punto di riferimento per la popolazione gazawa che qui riceve cure appropriate, assistenza sanitaria e umanitaria. Un po’ di sollievo davanti alla continua emergenza umanitaria di questo lembo di terra abitato da due milioni di persone, impossibilitate ad uscire per il blocco israeliano. I segni di tre guerre negli ultimi nove anni non sono solo esteriori, come case ed edifici distrutti, ma anche psicologici. La missione del nosocomio cristiano: offrire cure adeguate e insegnare la resilienza alla popolazione.

Un’oasi di pace nel bel mezzo di una delle aree più turbolente del mondo. L’“Ahli Arab hospital”, con i suoi 80 posti letto, è l’unico ospedale cristiano della Striscia di Gaza. Situato al centro di Gaza City, a pochi passi da Palestina Square, il nosocomio – fondato nel 1882 e gestito dalla Chiesa episcopaliana della diocesi di Gerusalemme e del Medio Oriente – è un solido punto di riferimento per la popolazione gazawa, e non solo durante le guerre trascorse, quelle del 2009 (Piombo fuso), del 2012 (Colonna di nuvola) e del 2014 (Margine protettivo), solo per citare le ultime tre. Ogni giorno, infatti, a usufruire dei suoi servizi sono centinaia di persone, soprattutto donne e bambini. Le statistiche parlano di 4.000 visite mensili, 300 operazioni chirurgiche, 2.800 test di laboratorio, oltre 600 esami radiologici. Su base annua, invece, vengono effettuate circa 3mila mammografie e screening per la prevenzione del cancro alla mammella, più di 12mila sedute di fisioterapia e di riabilitazione e oltre 1.800 trattamenti di emergenza. Tutto senza avere finanziamenti da parte del Governo di Hamas che controlla la Striscia, ma facendo leva sui benefattori e sui volontari che si danno da fare per dare continuità alla missione.

Emergenza continua. Ma a Gaza l’emergenza è continua: la disoccupazione è al 42%, quella giovanile arriva al 60%, il 70% della popolazione dipende dagli aiuti alimentari, l’acqua potabile scarseggia, le falde sono inquinate e le condizioni igienico-sanitarie ne risentono grandemente. Le guerre, tre negli ultimi nove anni, oltre a lasciare morti, macerie e distruzione hanno segnato profondamente la parte più vulnerabile della popolazione gazawa, donne, anziani e soprattutto bambini. Statistiche rilasciate da agenzie umanitarie internazionali hanno stimato in oltre 350mila i bambini traumatizzati dalla sola guerra del 2014; 250mila quelli che vivono in condizioni abitative non idonee. Come se non bastasse, in questi giorni l’energia elettrica viene erogata quotidianamente per non più di tre o quattro ore. La principale centrale elettrica della Striscia, infatti, non funziona a pieno regime per mancanza di fondi per l’acquisto di combustibile. La quantità di corrente che arriva da Egitto e Israele non basta a soddisfare il fabbisogno della popolazione, 2 milioni di persone “strette” in un fazzoletto di terra di 360 chilometri quadrati e ‘costrette’ a restarvi per il blocco imposto dallo Stato ebraico. “Ci troviamo ad operare in condizioni di estrema gravità – spiega la direttrice dell’ospedale, Suhaila Tarazi, a una delegazione di vescovi dell’Holy Land Coordination, in questi giorni a Gaza per la tradizionale visita di solidarietà alla piccola comunità cristiana locale, circa 1.200 fedeli, di cui 135 cattolici -.

 

Quando manca l’energia elettrica dobbiamo usare i generatori e questo ci costa mediamente 80 dollari l’ora.

La nostra missione è quella di servire i più poveri dei poveri, i più colpiti dai disastri compiuti dall’uomo, per dare a tutti possibilità di cure,

senza alcuna distinzione religiosa, politica, etnica, sociale. Qui vengono da tutta la Striscia, da Jabalia a nord fino a Rafah, a sud”. Dalla finestra aperta del suo ufficio arrivano le voci di tante giovani madri e i pianti dei bambini. Attendono il loro turno di visita, gratuita.

 

Per loro l’ospedale ha attivato anche una campagna sanitaria che include cure mediche per donne malate croniche, un programma rivolto ai neonati e bambini malnutriti, la terapia per quelli traumatizzati, esami per la prevenzione del tumore alla mammella, e la distribuzione di cibo e medicine per quelli più poveri. “La mancanza di medicinali a Gaza – afferma Jehad Hessi, docente universitario e consulente dell’ospedale ‘Ahli Arab’ – è un grave problema. Non disponiamo del 45% dei cosiddetti medicinali di base. Non esiste radioterapia, spesso i malati oncologici cominciano un protocollo di cure che poi devono abbandonare per l’esaurimento dei medicinali”. Uscire da Gaza per curarsi è molto difficile. Nonostante ciò l’ospedale prosegue il suo impegno per dare ogni cura possibile alle persone di Gaza garantendo uno standard sanitario il più alto possibile. “Anche così sviluppiamo la resilienza dei gazawi – aggiunge la direttrice Tarazi -, costruiamo ponti e dialogo.

Testimoniamo la nostra fede in Dio. Prestiamo il nostro servizio con orgoglio e non abbiamo timore. Siamo fieri di essere cristiani”.

In una terra dove disagi e difficoltà sono all’ordine del giorno, l’ospedale “Ahli Arab” è più che mai un “faro” di pace e di speranza per la gente di Gaza.

Daniele Rocchi

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