È un dibattito che appassiona gli esperti economici, ma in realtà dalle parole si è già passati ai fatti pure in Italia: il ruolo dello Stato nell’economia. Argomento delicatissimo nel nostro Paese, reduce dai quasi 60 anni dell’Iri: istituto nato in epoca fascista per salvare il sistema creditizio italiano da una serie di fallimenti, divenne poi il volàno della ricostruzione nel Dopoguerra, e infine lo scatolone pubblico dove finivano tutte le aziende decotte. Così lo Stato si trovò a fare automobili (la tragica esperienza dell’Alfa Romeo), acciaio, barche, gelati e merendine…
Noi abbiamo pian piano smobilitato la longa manus pubblica nell’economia, salva la proprietà di pacchetti azionari in importanti aziende strategiche (Eni, Enel, Terna, Ferrovie, Poste…). In altri Paesi occidentali – la Francia su tutti, ma pure la Germania – la commistione Stato-privati è molto diffusa e pesante. Si pensi alle banche e all’industria automobilistica, dove Parigi è dentro l’azionariato di Renault (quindi pure di Nissan) e Peugeot.
Ma perché si torna a discutere di un simile tema? Lo ha riportato a galla il novello Fondo Atlante, in realtà un coacervo di denaro pubblico e privato sorto in breve tempo per salvare alcune banche e per tentare di risolvere la grana dei troppi crediti inesigibili che attanaglia l’intero settore. Ma attraverso la Cassa Depositi e Prestiti lo Stato italiano è già da tempo attivo sul fronte di investimenti e partecipazioni.
Quindi – nonostante la filosofia comunitaria di non ingerenza degli Stati nelle economie (principio come visto bellamente ignorato) – la questione è in parte già delineata. Ma esiste sempre il problema degli aiuti indebiti, dei soldi pubblici che possono falsare la concorrenza, degli investimenti che non sono tali ma sussidi più o meno mascherati e più o meno interessati ad un ritorno economico. Insomma “aiuti di Stato”, e non va bene.
Ma se la spesa pubblica è un buon investimento? Se soprattutto latitano gli investimenti privati, vero problema dell’Italia? Perché di liquidità in giro ce n’è un Mar Rosso, ma tutta ferma lì, in conti correnti-depositi-Btp e al massimo immobilizzata nel mattone. Il “venture capital” tipico del capitalismo Usa, qui non sappiamo nemmeno come tradurlo se non come “prestito bancario” dietro corpose garanzie. Ma è un’altra cosa.
Quindi? La discriminante, come al solito, è la qualità, soprattutto quando di soldi (pubblici) ce ne sono pochi da investire. Foraggiare i consumi e quindi l’industria tramite bonus fiscali? Fare da leva finanziaria a “venture capital” nostrani? Usare fondi pubblici “a garanzia” di un investimento? Intervenire direttamente in grandi lavori tipo la vecchia Tav o il futuro cablaggio dell’intera nazione o quasi?
Se ne può parlare. I tempi dello Stato che butta soldi dalla finestra producendo formaggini o mantenendo in vita aziende già defunte, sembrano ormai definitivamente superati. Il controllo mediatico, dei mercati finanziari, delle istituzioni europee – politiche e bancarie – ci garantiscono su questo fronte. Ma visto che le risorse sono poche, il vero problema è capire su quale tavolo giocarle, al meglio, per vincere la partita.
Nicola Salvagnin