Non siamo in grado di rispondere a una domanda così difficile. Ci attribuiremmo un ruolo che è certamente superiore alle nostre capacità di analisi. Ma da cittadini italiani, nati a Nord e a Sud del Tevere, che riconosciamo in Roma la nostra Capitale, vorremmo che qualcuno responsabilmente ci rispondesse senza falsi pudori, senza sconti emotivi e soprattutto senza alibi antropologici
C’è chi invoca la “questione romana” come “questione nazionale”. Di sicuro, il futuro di Roma Capitale riguarda tutti gli italiani del Nord come del Sud. Cattolici, compresi, ovviamente. E non solo perché Roma ospita il Papa. Ma soprattutto perché i cattolici italiani hanno saputo conciliare mirabilmente la loro condizione di credenti con quella di cittadini di uno Stato unitario nato dai sommovimenti del Primo Risorgimento e confermato dai dolori e dalle lotte del Secondo Risorgimento. Una conciliazione alla quale hanno contribuito con la forza di un partito organizzato come la Democrazia Cristiana e che hanno anche saputo abbandonare al destino della Storia, quando la modernità ha bussato alle porte delle istituzioni e della dialettica politica.
Ma Roma nel frattempo è cresciuta a dismisura, affastellando periferie a periferie, baraccopoli a quartieri di edilizia popolare malvissuti perché malpensati, comunità di immigrati da ogni parte d’Italia con grandi gruppi di migranti dall’estero, vaste comunità rom con nuovi immigrati per bisogno, gruppi di interesse con burocrazie sonnolente e spesso disponibili al compromesso, formidabili corporazioni professionali con forti poteri di intermediazione e di veto, grandi gruppi criminali (oggi in odore di Mafia) che si sono arricchiti con le droghe e hanno fatto la fortuna di scrittori e sceneggiatori di fiction. E poi, incerti e improbabili governi comunali che non sono riusciti a dare una risposta credibile ai bisogni della città, ma hanno fornito il migliore alibi a tutti i populismi, separatismi e indipendentismi latenti nel Paese.
Inevitabile la domanda: “Roma è malata?”. Non siamo in grado di rispondere a una domanda così difficile. Ci attribuiremmo un ruolo che è certamente superiore alle nostre capacità di analisi e soprattutto ci esporremmo al facile giudizio di chi giustamente ci ricorderebbe che noi di Roma siamo solo abitanti occasionali e che non siamo nati qui, non la conosciamo bene e soprattutto non conosciamo i romani… Ma da cittadini italiani, nati a Nord e a Sud del Tevere, che riconosciamo in Roma la nostra Capitale, vorremmo che qualcuno responsabilmente ci rispondesse senza falsi pudori, senza sconti emotivi e soprattutto senza alibi antropologici.
Nei cattolici italiani è ancora vivo il ricordo del lontano convegno (era il 1974) sui “Mali di Roma”. Fu un momento straordinario di civile consapevolezza nato dall’intuizione del cardinale Ugo Poletti, vicario di Roma con Paolo VI. I cattolici anche allora ripartirono dalle periferie, dove le condizioni umane erano gravissime. Fu il momento in cui, come ricorda lo storico Andrea Riccardi, la Chiesa della città di Roma assunse la fisionomia di una Chiesa di popolo. E in cui il Concilio trovò cittadinanza nella base cattolica. In molti, allora, nelle periferie cattoliche italiane, sognammo che qualcosa del genere potesse avvenire anche nelle nostre diocesi talvolta sonnolente e abitudinarie, a Nord come a Sud dello Stivale. Il resto è Storia del cattolicesimo italiano post conciliare che tanti di noi hanno vissuto con personale partecipazione e consapevolezza, stagione dopo stagione.
Ma Roma con i suoi mali (diversi e complementari a quelli di ieri) è sempre lì, a ricordarci che anche i cattolici hanno il dovere di rispondere alla domanda: “Roma è malata?”. Può aiutarci la capacità profetica di Papa Francesco, che ci ha invitato a ripartire da tutte le periferie, anche da quelle esistenziali. Ancora e sempre periferie, come nel 1974. Forse così sarà più facile trovare una risposta a una domanda alla quale, anche noi credenti e cittadini italiani, responsabilmente non possiamo sottrarci. Perché Roma può anche non piacerci, ma al suo destino non possiamo essere indifferenti. Perché siamo italiani, oltre che cattolici romani.
Domenico Delle Foglie